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  FRANCESCA SANGALLI
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è scoppiata la pace

4/25/2020

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Ascolta "È scoppiata la pace" su Spreaker.
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Un piccolo pensiero e un ricordo che abbraccia un arco di amore speranza e crescita dalla Liberazione alla riapertura della Scala.  

​clicca qui
​https://www.spreaker.com/episode/26004333
​

Voci
Sergio Leone
Giorgia Senesi
Testi e racconti tratti da "La mia Ricostruzione" ,
reading teatrale sulla Ricostruzione di Milano,
di Francesca Sangalli

testimonianze di Franco ed Ernestina Fiocca
si ringrazia pet la supervisione Antonio Quatela, storico della Resistenza
Montaggio sonoro Andrea Fantasia



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ISOLAMENTO IN MONTAGNA 23

4/22/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO VENTITRE
Ottavo anniversario di matrimonio caratterizzato da venti forti di (in ordine alfabetico) Bora arrabbiata, Grecale offensivo, Libeccio insultante, Maestrale invettivo, Scirocco stronzo, Tramontana provocatoria, Zefiro oltraggioso. Da oggi fino a data da definirsi il ciclone litigioso concentrerà la sua azione perturbata su tutto l’arco della vita di coppia dapprima al mattino, poi nelle ore serali continuando anche nei sogni. Si prevede che il malumore continui a manifestarsi con temporali e locali nubifragi.
C’è chi è prigioniero nella vita libera perché non si allinea alle convenzioni e chi è libero nella clausura perché si allinea al suo vero sé, ho sentito dire. Io non so dove sono. Sono nella fase del lampo, in attesa dell'arrivo di un tuono devastante.
Dopo pranzo mio figlio accompagna il gatto Signor Cesare Marrali fuori in giardino e lo segue fino al recinto, poi, mentre il felino si allontana e scompare nella bruma, si sporge allungando il braccino per salutarlo. 
“A che ora torni? A che ora torni, Cesare a che ora torni? A che ora torni?” domanda il figlio implorante, quando la coda è solo un puntino appena visibile sulla stradina. Io sono poco distante e lo osservo disarmata, non so se ridere piangere o battere le mani. Per fortuna una vicina, forse estenuata, forse commossa, forse illuminata da un raggio di intelligenza divina lo interrompe affacciandosi al balconcino e rispondendo al posto del pelosetto fuggiasco: “Ha detto che torna alle quattro”. 
Il figlio, rasserenato, ringrazia la signora al balcone e inizia a chiacchierare amabilmente raccontando le peripezie del Signor Cesare Marrali, rilasciando anche dichiarazioni che non si possono definire del tutto rispettose della privacy del suddetto Sig. Marrali.  
Ho ricominciato a vestirmi di viola: qui in montagna avevo portato tutti i vestiti viola dopo la fine di un lavoro, tanto tempo fa. Tempo fa. Il passato mi sembra sommerso tra le foglie, nell’erba alta, confuso tra tanti eventi disordinati, strano che venga fuori con questo colore, che sia riapparso dalla valigia in soffitta. I miei vecchi vestiti viola. Perché amavo questo colore.  Ed ero io. Il colore viola.
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ISOLAMENTO IN MONTAGNA 22

4/19/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO VENTIDUE
Un giorno di litigio grave con il consorte mostra quanto sia impossibile prendere la porta e dirsi: e allora me ne vado! Si diventa delle caricature goffe che nascondono in un piccato silenzio l’inquietante divergenza. Mentre scorro molti testi che devo correggere, mi imbatto nelle riflessioni di una grande poetessa e il prezzo che paga. Un romanzo che avevo già incontrato in adolescenza e che risveglia in me una riflessione sul tema di ospitare nel proprio temperamento aspetti aspri o discordanti, ideali, utopie, cosmi obliqui. Mi viene in mente quel piano del Coin, il terzo mi pare, si chiama “donna conformata” e vi si trovano tailleur, twin set, gonne magliette e abiti di cui non saprei descrivere la singolarità. Penso a me, che non mi riesco a incanalare, termine preso in prestito a una supplente della scuola materna di un bambino che era nella classe di mio figlio: "deve essere ancora incanalato". Mi aveva fatto venire un po’ di brividi. E allora provo un po’ di affetto per questa indole che non sempre ama abbinare i vestiti, che non è andata dall’estetista e si fa la tinta blu da sola, giusto per chiarire che mi pongo un po’ sul limitare della strada, ferma a fare l’autostop. Non so cosa sia la bella apparenza. 
Finisco di leggere un romanzo per lavoro. Mi lascia con molte domande pesanti. Che prezzo si paga a non essere conformati? Sentirsi a disagio nella vita e molto più disinvolti nella solitudine e non riuscire ad avere sudditanza: un sinonimo di egocentrismo, individualismo prima che di essere un individuo che si riconosce in un sistema di valori univoco e sedimentato? 
La video-merenda mi fa mettere a terra i fogli il libro e le elucubrazioni a cui mi sto attaccando sempre più, forse per un aristocratico desiderio di lontananza dal crepitare ininterrotto di opinioni, consigli, sfoghi rabbiosi. Sfuggo il social e cado nella mia mente. So che è un pericolo inclinare troppo il contrappeso in una direzione o nell’altra. Ma chi riesce a mantenere sempre la barra dritta? Stanotte i gatti non ci hanno fatto dormire, e così la testa fa male. Sembra che il Signor Cesare Marrali abbia l’invadenza di un piccolo bullo che deve spostare tutti dai letti, vagare con miagolii satanici e azzuffarsi nelle ore piccole: mi ricorda un adolescente irrequieto. . 
Sentiamo la madre di un compagno di mio figlio, anche lei è in un rifugio fuori città, un posticino piccolo preso in affitto e fuorimano con un giardinetto. Ha deciso di stare ferma dov’è come da consiglio della sua regione. Dopo ormai molti giorni dalla chiusura in quarantena di tutta l’Italia, (da quel giorno ho cominciato a scrivere, non da prima) non ha ancora preso dei vestiti adatti al caldo: ci dice che i siti di acquisto online selezionano i prodotti in beni superficiali ed essenziali e che le mutande per la bambina sono tra i primi, dunque non le arriveranno mai. E che non ci ha pensato, è agitata. Molto tempo dopo scopriremo che arriva un po’ di tutto, giusto se volevi comprare in modo impellente un hang pan (che è un enorme tamburo di rame), forse non ti arriva.
Questa merenda di bambini in Zoom procede deliziosamente, tra boccacce, gatti trascinati davanti a schermi e presentati ad altri gatti. Chissà cosa pensano due felini che si fissano su schermo, tenuti e protesi verso l’occhio del computer da sotto le ascelle. Hanno una faccia mesta e fanno meow. diranno, "Anche tu, vero, fratello? Ci tocca!"
Realizzo che staremo qui fino all’estate. Non lo hanno detto ma, giuro!, lo sapevo. Lo so. E tutto è molto diverso oggi, chissà come sarà l'state davanti a noi: d’estate normalmente qui c’è il viavai dei trekking, le campane sono onnipresenti, talvolta clacson, l’economia turistica, la voglia di essere energici. Sportivi. Montanari che salgono sbuffando con bambini che litigano e gente del paese con l’ Ape Car, una specie di carriola degli anni ‘70 che desidero con brama infinita, capace di sconfinare oltre l’asfalto e salire su per il sentiero fino alla baita dove munger le vacche. chissà come sarà questa estate.

​È incredibile: mi ero gettata a capofitto nell’allenamento a guidare l’auto, ho portato la macchina qui sopra in una notte di febbraio, temendo la neve e guidando fino alle due e mezza, orgogliosa di aver finalmente imparato a tenere il volante senza cedere per due ore e mezza. La macchina. Io. Un mio delicatissimo punto debole che tento prontamente di svalicare, alla ricerca di un modo per recuperare quella fase in cui ci si rende svincolati dagli accompagnatori. L’orgoglio di una nuova epoca: un triplo euforico urlo di gioia all’arrivo davanti al cancello e un mieloso discorso di autoincensamento in previsione di un radioso futuro da girovaga. Non ci mettono tutti in quarantena? Ma se il destino voleva che non guidassi e che mi piantassi in casa, avrebbe anche potuto dirmelo!

E, di fronte alla chiusura dell’inutile su Amazon, è il momento in cui molti si chiedono quale potrà essere la loro ultima essenziale futilità, l’oggetto superfluo del consumismo, la peggiore malattia di cui soffriamo, verso la quale Antonino Zichichi ci ha già più volte allertato. Io penso a un fucile a pallini di plastica, quello del luna park. Ne abbiamo uno giocattolo, un po’ pesante, va bene per sparare ai barattoli con bossoli di plastica. Ci penso perché mancano le cariche. Sarebbe come sentirsi un personaggio dell’ultima stagione di True detective, però senza colpi veri e senza una storia sviluppata in trame temporalmente in differita. O no?

Qui mi devo fermare perché devo seguire per i prossimi giorni con più attenzione gli eventi famigliari. presto sarà mia premura condividere tutti gli altri racconti che ho appuntato.


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ISOLAMENTO IN MONTAGNA 21

4/18/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO VENTUNO
È domenica. C’è un grande evento. Siamo riusciti, in un quartetto di genitori a organizzare una video merenda utilizzando in Zoom, con i migliori amici di mio figlio. Accendo il video e tutti si parlano addosso. Spero finisca presto. Come battuta dico: “diamo il via alle boccacce”. lo fanno sule serio. L’appuntamento dura 30 minuti e loro, per trenta minuti, riescono a fare solo boccacce e versi.
Sono tutti appartenenti al genere maschile.
​ 
I cerbiatti ci chiedono rifugio in casa, non so se hanno un gregge, ma ne abbiamo visto uno passare nel nostro giardino, forse si era perso, forse la mamma lo cerca. Appena vedi un cerbiatto ti viene da pensare a Bambi. Io evito i cerbiattini, mi fanno piangere, ma bisogna ammettere che sono davvero carini. Mia madre ieri notte gli ha lasciato pane e latte e oggi mi ha detto: “Vedi, il paniere è vuoto il cerbiatto ha mangiato pane e latte di notte!”, e se ne va tutta baldanzosa a pulire di nuovo il vetro della stufa. Sinceramente non credo che un cerbiatto sia venuto di notte a mangiare pane e latte… è un’ipotesi davvero poco plausibile, perché di notte? Non mi risulta un animale notturno. Dal momento che mia mamma adora l’idea di aver nutrito Bambi, non la contraddico, ma appena tutti vanno a letto mi apposto con il binocolo del bisnonno, rigorosamente ’15-’18, alla finestra del salotto e aspetto di vedere chi è che viene a cena. Mi figuro che possa essere un gatto selvatico. Cinghiali non ci sono. Volpi sì. Qualche uccellino, molti corvi, dei rapaci, ma anche qualche vicino di casa mannaro. Oppure qualche capra… oppure l’orso bruno, che anche lui non ne può più di gente che va a nascondersi nel bosco per l’ora d’aria e forse se ne è già mangiato qualcuno nel silenzio generale.
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isolamento in montagna 20

4/18/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO VENTI
Osservo il sentiero dal cancello di legno e cerco di prendere un poco d’aria: non c’è nessuno qui sopra, ma ugualmente il limite è invalicabile. Mi viene da pensare: se balzassi fuori sarei nell’immensità… che strano concetto, una parola che ha una consistenza proprio da urlare, mi vedo che faccio il balzo e ululo: “nell’immensitaaaaa!”. 
Mi sembra impossibile che ci sia un pericolo o un divieto. Chi potrei incontrare? Neanche finisco di formulare il pensiero che mi accorgo di tutti gli altri. Pare che una moltitudine di piccoli cappellini abbia avuto lo stesso desiderio di saltellare come camosci sulla nostra testa. Nell’immensità. Non sapevo ci fosse tutta questa gente libera di darsi alla macchia, quante case ci sono sul mio stesso versante della montagna? Chissà se oltre il muro fitto del bosco si cela un frenetico formicaio di uomini semi invisibili, dietro ogni albero una sagoma. Chissà se si rischia di incrociare i fuggiaschi, come partigiani sparpagliati nella macchia, è strano, è come se si rianimasse un quadro del passato. Probabilmente è un’allucinazione ma mi sembra di vivere uno strano contatto tra epoche diverse: sotto gli abeti e accanto ai muschi non si è a rischio come in città, come tra gli scomparti pericolosi di un ipermercato, come durante i bombardamenti. Fare un passo fuori e trovarsi catapultati indietro di settantacinque anni… resisto alla tentazione di scoprirlo, un po’ per rispetto delle regole, un po’ perché sono vigliacca, un po’ perché, infine, ho paura di incontrare altre persone e che sia pericoloso perché i corpi degli altri sono rischiosi. E un po’ perché, se trovassi altri che hanno eluso le regole come me, mi sentirei avvilita. Ci si sente un po’ nudi quando lo specchio si gira verso di noi e, nell’altro, vediamo noi stessi; è come fare una videochiamata e ingigantire lo schermo solo sulla propria immagine mentre il nostro interlocutore viene rimpicciolito. In quel signore attrezzato da trekking, con la sua racchettina, gli abiti tecnici, il cappellino, vedo in qualche modo le mie stesse ideazioni, il surreale convincimento di avere a disposizione il bosco da sola.  
Non si trovano le mascherine. 
Alle tre del pomeriggio ho un attacco di invidia, alle tre e mezza di compassione, alle tre e quarantacinque sono esaltata e alle quattro sono diventata glaciale come un microbiologo. È impossibile decifrare cosa faccia il mio umore, l’interpretazione più accettabile è che sia mutevole come il cielo della Scozia. È mutevole il cielo della Scozia? Possiamo confermarlo? Sono di umore umorale. 
Devo confessare che mi piace l’idea che tutto sia fermo. Devo rompere anche la quarta parete e dire che in effetti sto rimettendo in forma qualcosa che ho scritto un mese fa quando, all’inizio sentivo un piacere strano e inconfessabile di fronte alla paralisi generale, vedendola come una possibilità di riprendere fiato. Ho deciso di inserirmi con questo disturbo dello spazio tempo, un po’ in tema con quello che immaginavo guardando oltre il cancello, oltre la siepe, perché è passato molto, troppo, ed è vero: la mente ha fatto altri percorsi e non tutte le convinzioni corrispondono ancora a quelle di trenta giorni addietro. Eppure per me è rigenerante mantenere la differita e osservare da fuori e da dentro nel passato e nel presente questa incredibile situazione. Torno a un mese fa.   
Oggi in modo speciale mi sento di avere il Covid.
Ho letto che può prendere gli occhi e mi sento strana, ho sonno, sempre di più svogliatezza e pigrizia, sempre fame, poi mi fa male lo stomaco e di nuovo sonnolenza ed emicrania. E non sono la sola. 
Se avessi il virus, mi dico, me ne dovrei fregare di lavoro e scrittura immediatamente. Mi viene un tuffo al cuore: tra sette o otto giorni potrei finire in rianimazione, mi si gelano le gambe all’idea, è mostruoso, davvero sarebbe il caso di mollare tutto per giocare con mio figlio, passare tutta la giornata con lui, tenermelo accanto, certo, senza contagiarlo, ovviamente. Devo mollare immediatamente la futilità di questo momento, le stupidate che leggo online sui runner che possono correre mentre i vicini delatori fotografano chi è in giro, gente che denuncia altra gente, meschinità, piccoli rapporti di potere, chi è amico di chi, quelli popolari e perché io non lo sono, i sommersi e i salvati. Dovrei muovermi ma passo ore a fissare il vuoto. Magari sono minuti, ma chi può contarli? Tengo traccia di ogni piccolo malessere che percepisco, mi faccio l’anamnesi precisa e dettagliata e mi domando: saranno i primi sintomi? Accendo il cellulare. Digito su Google Coronavirus sintomi, leggo che si muore, fino al 90% in più perché tutti sottovalutano i sintomi gastrointestinali, che potrebbe essere coronavirus se hai la congiuntivite, un po’ di mal d’ossa o i capelli unti. È coronavirus se ti esce un brufolo, se ti prude il piede, se fai uno starnuto.  
Ho un attacco di panico, non riesco nemmeno a rispondere ai messaggi al telefono, leggo distrattamente che qualcuno mi ha chiesto se da noi ci sono tanti contagi. Non lo so. Spengo il telefono. Ci sono tanti casi? Non lo so. Riaccendo il telefono e mi faccio forza: nelle statistiche che riguardano la montagna i contagi sono più o meno stabili. Anzi, ci sono poco meno di venti casi.
Adesso è importante smetterla di rimuginare, mentre mi forzo di combattere questo buco nero che mi risucchia a momenti alterni. Multiformi ondulazioni tra up e down: momenti in cui provo sollievo, lontana dal confronto faticoso e dalla pressione sociale, momenti che mi fanno temere per il mio futuro e per quello di noi tutti. Vorrei arrendermi ed essere solo una madre. Ebbene, anche se si tratta di procrastinazione sulla performance, se dimenticherò tutto ciò che abbiamo detto nel brain storming, se non avrò il minimo interstizio nella società di domani, il mio mal di stomaco mi trascina come una nave, mi porta a pensare che devo prendere i pennelli e dipingere con il mio bambino, oppure giocare ai birilli. Lo faccio immediatamente. Tra sette giorni potrei essere ricoverata, salutarlo e non vederlo mai più. Mi viene così tanta angoscia che nemmeno riesco ad arrestare le lacrime, se dovessi morire vorrei solo che lui non ne soffrisse.
Esco dalla porta dello stanzino in lacrime. Lui è lì con il gatto Signor Cesare Marrali, lo abbraccio così forte che quasi lo soffoco. 
“Mamma hai finito di lavorare?” “Sì, oggi sì.”.
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isolamento in montagna 19

4/17/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO DICIANNOVE
L’innalzamento delle temperature ci permetterà di godere qualche piccolo effetto positivo del global warming solo da sopra i mille metri: ricordo che nel grande capannone in cui si teneva un dibattito sul tema, ho aperto bene le orecchie quando Mercalli consigliava di vivere più in alto per sfuggire al caldo tropicale, diceva che sarebbe divenuta una necessità e che migreremo tutti in montagna. Ho pensato. Salirò in alto anche io. Adesso che sono qui, lo aspetto anche perché è una persona gradevole, ci mangerei insieme, insomma. Lo aspetto a cena, ma… che vengano solo alcuni. Se no, come facciamo a godere degli spazi sconfinati? La grande metropoli si potrà anche sparpagliare in tante località diverse, per esempio, perché gli altri non possono andare a rinfrescarsi al mare, dove potranno mettere i piedi nell’acqua, tuffarsi nel mare a febbraio dopo l’orario dello smartworking.  Alla fine di questa pandemia, distribuiamoci bene! Spero che non si trasformi in città anche il bosco accanto, penso, mentre mi manipolo un bottone della giacchetta con un po’ di sospetto. Chi sta parlando dentro di me? È una voce che mi è arrivata dritta e senza filtro, con lo stampino in serie, un pensiero tremendo: l’illusione di poter godere io sola di qualcosa e precluderlo agli altri. Credevo di essere una persona migliore. Procedendo per libera associazione, sembro quel famoso politico che assicurandoci: andrà tutto bene, l’Italia ce la farà, è poi sparito inabissandosi tra i flutti, portato via da un sottomarino tipo Nautilus del capitano Nemo. 
Il tempo interno è sempre più strano, a volte si dilata a dismisura, a volte tra pranzo e cena non passa nemmeno un respiro. Anche fuori il tempo varia in una infinità di modi, sembra quel luogo comune sugli inglesi. Chissà come stanno gli inglesi con Boris Johnson? Sono felice di essere in Italia.  Per gli inglesi il tempo atmosferico varia di ora in ora ed è sempre un argomento su cui innestare una conversazione ricca di spunti. Forse noi italiani tendiamo a parlare del passato idealizzandolo nostalgocamente. Quando a zappare la terra c’era mio nonno io lo inseguivo con una palettina di plastica. Era tutta rotta e tenuta insieme con lo scotch perché mentre lo imitavo e conficcavo anche io il mio ridicolo badile nella dura terra, si spaccava tutta: i miei potenti mezzi non erano all’altezza e la plastica blu si sfasciava contro il ghiaccio. Sono ancora quella bambina che non ha i potenti mezzi ma che fa la sua buca tenendo insieme un po’ le cose coi cerotti. Noto nell’aria già le prime mosche vive, non del tutto rintronate, il sole non è quello del gelo ventoso, è lucente e perforante, come se potesse cuocermi le ginocchia su una bella pietra ollare. È vero, di notte si gela, ma questa palla di fuoco enorme e infinita ogni tarda mattinata mi abbraccia e mi scalda; in città a malapena sapevo che esistesse e che viaggiasse sulla mia testa. La sua traiettoria era immobile, era più facile dire: che stupidi quelli che credevano che fosse il sole a girare attorno alla terra. Che egocentrici. 
A viverla così, sempre con il cielo spalancato sopra la testa e tutt’intorno, ci sarebbe da mettere tutto in dubbio: pianto gli spinaci e l’insalata, e lui è alle mie spalle, costruisco una serra, sbaglio, litigo con la cazzuola e lui si è già spostato in cima alla mia nuca, devo rimettermi al lavoro e lui è già scomparso dietro alle cime. Torno in casa pensando di aver vissuto una giornata, con il fiatone e le braccia indolenzite.  Pazienza se sono pessima, non leggo le bustine con le istruzioni: quale mese, quale anno, come far germogliare, come far crescere, quando innaffiare. Pazienza. Ora mi rimetto alle occupazioni mondane. Ed è definitivo: è il sole che gravita attorno alla montagna. Io sono rimasta ferma nell’orto tutto il giorno e lui se n’è andato, dunque è dimostrato, non sono io che mi muovo!

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA 18

4/17/2020

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Sto esagerando. Se tutti i semi dovessero germogliare insieme mi servirebbero ettari di terra concimata, campi a perdita d'occhio, trattori, motozappe, un camion di concime e due braccianti. Io, incurante, faccio cassettine e metto semi, senza soluzione di continuità, sono inarrestabile, sono divenuta bulimica. Voglio tutte le piante, voglio anche l’ananas del monte! Schiumo in uno strano delirio di torba e sementi. Per fortuna arriva un camion enorme che quasi mi investe. Sono accucciata in terra a infilare con dito i semi nel buco della torba completamente in tranche e non credo mi abbia vista mentre fa manovra. 
E inneschiamo di nuovo la domanda più gettonata dell’epoca pandemica: come la classifichiamo una vittima schiacciata dal camion che fa manovra nel giardino mente infila dita nella torba? È il fornitore del combustibile per la stufa. Ci passiamo il carburante di mano in mano, danzando il Valzer: sono taniche da 25 litri in una grossolana plasticaccia rossa. L’uomo che le porta non è di molte parole, ha un camion ricolmo di taniche rosse, le stesse, come dieci anni prima e prima ancora, forse quando ero piccola lo stesso uomo del Monte, veniva a portare taniche piene. Non ha età. Il camion è lo stesso. È cambiato qualcosa negli anni, forse, nel tipo di carburante che si usa per scaldare, è cambiato l’odore, prima l’aria assumeva un che di pungente e ubriacante, adesso l’aria attorno alla stufa è meno tubo di scappamento e sa più di stalla. E così noi, i nostri vestiti e i nostri pensieri. Ma non è cambiata la tanica, in plastica, tutta rigata, il tappo nero. L’uomo del carburante porta dei guanti spessi, è vestito con dei jeans chiari e una giacca albicocca, un po’ sporca deliziosamente vintage. Non indossa la mascherina. Forse sta pensando che nulla deve cambiare, altrimenti il fuoco smetterà di scaldare e l’acqua di dissetarci. Sa che non siamo di qui, come molte persone che abitano nelle rare case dei dintorni. Per fortuna mia mamma ha allacciato dei rapporti negli anni, altrimenti chissà cosa succederebbe se avessimo bisogno. Nessuno è un’isola, dice anche una persona che conosco. Nessuno è un’isola, ha ripetuto ieri sera mio marito. Lo penso anche io. Però gli scrittori ne hanno inventate tante di isole, circondate dai mari e dagli oceani, hanno sognato come Defoe, una vita tutt’altro che contemplativa ma carica d’avventura, l’isola che non c’è così agitata tra infanzia perduta, ombre, rettili e pirati. E Stevenson non aveva forse dipinto la mappa dell’isola del tesoro sotto al tavolo per far giocare suo nipote e intanto scrivere il suo romanzo? io sono su questa isola deserta che ha sulla cima una montagna altissima a picco e sono sulla punta, completamente ipnotizzata da questo sogno. Nessuno è un’isola, ma tutti possiamo crearcela intorno e fantasticare. Soprattutto oggi, dato che le notizie al telegiornale vanno peggiorando. Sono sempre sconfortanti e sono capaci di focalizzarsi ogni giorno, come se fossero d’accordo, a reti unificate e pareri allineati, su un unico argomento di tendenza. Di tendenza terrificante.
L’Ibuprofene.
​Oggi c’è l’Ibuprofene. Sembra che sia un acceleratore del virus. Lo ripetono alla mattina a pranzo e a cena. Non so se attaccarmi alla tanica di benzina. Vado a letto, tanto sono finita. 
Io ne ho mangiato così tanto di Ibuprofene che avrei potuto farci un risotto con le pillole. È anche per stanotte si condivide il letto con il nostro amico panico. 

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isolamento in montagna 17

4/16/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO DICIASSETTE
Mi trasferisco con tutte le cose di cui ho bisogno per lavorare nella stanza grande. È una camera molto calda e inondata di luce, sono sicura che mi farà bene al cervello. (Questo lo dico io, ovvio). Litigo con tutti, esibisco un carattere orrendo, li faccio sfollare. Era assurdo carcerarmi nello sgabuzzino e vedere l’altra stanza utilizzata solo per poggiare i vestiti, nello sgabuzzino ci mettiamo mio marito. Finalmente la luce. Libero la camera di tutte le cose che sostavano poggiate lì, prendo la mia gatta anziana e mi chiudo dentro. A chiave. 
Mi guardo attorno: che meraviglia, è straordinario: dovevo farlo da subito! Davvero, chissà perché ho aspettato tanto e sono rimasta nell’assurdo a lamentarmi della finestra con vista suicidio: qui mi affaccio al terrazzino, posso contemplare la montagna e nessuno rischia di vedermi se non ha un drone. Non ci sono altre abitazioni in questo angolo, sono tutti sotto di noi. Mi levo la maglia e mi espongo tutta nuda alla finestra. L’ho sempre sognato: “Buongiorno, nessun essere umano!”. 
Metto a frutto lo spazio nuovo e il pensiero.
Provo una scandalosa sensazione di libertà. Mi sono fatta strada sgomitando e ne sono felice, è parte della natura umana? Probabilmente sì. È la parte benigna come direbbe Fromm nell’Anatomia della distruttività umana, non ho fatto male a nessuno, ho solo infastidito e spostato tre vestiti. Gli umani sono feroci. Non me la sento di dare la colpa del male solo alla natura che ci sta distruggendo senza sentimento. Sono stronza anche io.
Vedo un camion salire faticosamente la stradina: lo so cos’è arrivano i cibi liofilizzati militari, li avevo ordinati nella notte in cui ho preso il telefono in un folle risveglio, vorrei seppellirmi. Intercetto il pacco appena viene lasciato nella cassetta della posta, li nascondo con profonda vergogna: non devono sapere che sono stata così imbecille. Anche la signora della casa di fronte avrà formulato la sua rimostranza nel constatare l’arrivo del corriere la seconda volta. Anche il corriere avrà sentito l’odore di curry, verdure disidratate e cipolle secche e avrà pensato. Ma questa è scema, ma è molto meglio la bresaola!
Alla fine in questa casa non riesco a nascondere nulla. Fisicamente non saprei come celare un qualunque oggetto, movimento, bisogno, disturbo, emozione, respiro: è un posto grande ma vige una totale assenza di porte, un ravanare in ogni dove, come i topi affamati in una cantina. Apro il pacco. Ci sono una serie di buste leggerissime da riempire di acqua bollente e lasciar cuocere nel loro brodo otto minuti, il tutto è corredato da piccole immagini che spiegano con la massima semplicità la procedura e da una signora felice, che fa una vita alpina indipendente e solitaria. Come sarà il gulasch disidratato? Che sapore ha una patata asciugata polverizzata e aromatizzata al prezzemolo? Avranno mangiato questo i marines in missione contro i talebani? Il pacco contiene anche altri fogli, come un piccolo opuscolo di istruzioni per la perfetta vita da escursionista e tutti gli attrezzi da non farsi mancare mai, mai, mai se si va lontani su per la montagna. O in guerra. O isolati in una pandemia con il supermercato più vicino troppo frequentato per non aver paura. Le mascherine non si trovano e, quando si trovano, non riparano.
Sono fortunata, se tutta la mia famiglia partisse alla riapertura del confinamento, potrei restare qui anche in futuro, senza muovermi per un mese o più, razionandomi le zuppette americane. Isolata. Senza alcun contatto umano. Sparire in un buco. Girare nuda. Cantare male. Battere le mani quando mi pare. Il pensiero mi pare un po’ allettante. 
Ma dubito che la quotidianità da queste parti sia questo fitto sciame di silenzio che c’è oggi. 
Riallacciandomi al giorno precedente mi domando se non dovrei pensare davvero a questa cosa di piantar patate, cipolle, seminare le zucchine che resistono in altura, gli spinaci. E se dovesse crollare l’agroalimentare? Se dovessimo farci la minestra con queste poche cose che vengono su nonostante il freddo e con le mie scarse nozioni su come si deve piantare a milletrecento metri? E chi raccoglierà i pomodori questa stagione? Io dico che non ci saranno più pomodori! Con questa idea stramba, nel pomeriggio, prima di lavorare, infilo gli stivali un po’ sfondati e mi metto a togliere le erbacce dalla parte inutilizzata da anni del piccolo orto. Per fortuna non mi vede nessuno del vicinato: la mia goffa figura di contadina incapace sarebbe oggetto di dileggio pubblico. Gli occhi degli altri mi mettono a disagio ogni volta che si posano su di me, sia che stia facendo qualcosa che so fare, sia che non sappia da che parte iniziare. Mi vedo sottoposta a un interrogatorio del tribunale dei contadini veraci. I fondamenti! Che cos’è la cazzuola? Mi prenda una cazzuola. Ce l’hai la motozappa? Hai tolto i sassi con il setaccio? Mi viene in mente una barzelletta, guardando questo piccolo fazzoletto di terra, una barzelletta brutta, che diceva che manco ce-ceni. 
Imperversano le dirette sui social e le narrazioni teatrali online, un modo per sostituire quella convivenza sociale che si è persa fino a data da definirsi. C’è una scelta molto ampia, sicuramente qualcuno avrà anche pensato di piazzare una telecamera fissa in casa dalla mattina alla sera e mantenere la diretta fino ai primi d’aprile. Un’esperienza che si deve riprendere costantemente, sinceramente io ci andrei a vedere che fa a casa mio cugino, così tanto per ficcanasare. Non è più esclusiva del mercato pornografico offrire stanze a cui collegarsi con un codice o versando denaro. Sono curiosa, è un fenomeno che mi attira e qualche diretta social è anche davvero bella, ma ho già creato una mia routine, ci ho provato e ascolto a fatica Radio Popolare, i diversi telegiornali che sono d’abitudine per i miei genitori e qualche volta Cappato. 
Scarico Zoom, ma non riesco a mettermi in contatto con nessuno. So che alcuni amici si trovano su questa piattaforma per salutarsi alla sera, roba di pochi minuti, non ci riesco, non faccio in tempo, non va la connessione, mi sento idiota, ho i capelli sporchi, ho paura che la video chiamata porti chiunque dentro casa mia e mi fa un certo effetto trovare naturali questi schermi che ci avvicinano le facce a tal punto da visualizzare l’area irregolare dei nei, guardare dentro nelle narici. Scrutare lo spazio tra dente e gengiva. La distanza tra le sopracciglia. Sono sprovveduta: il trucco deve essere far parte del gruppo in modo costante così da non destare troppe curiosità e, soprattutto, tenere le luci soffuse quel tanto da far sembrare la cosa naturale. Lascio perdere, il programma è sul computer ma per ora non sono pronta. Scappo in sala sono tutti a tavola, ho un ottimo umore senza una ragione precisa… a quel punto, prima del “buon appetito” li guardo seduti corrucciati e mi ricordo che qualche manciata di ore fa, per conquistare la stanza bella, ero stata sgradevole con tutti…
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ISOLAMENTO IN MONTAGNA 18

4/16/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO DICIOTTO
L’innalzamento delle temperature ci permetterà di godere qualche piccolo effetto positivo del global warming solo da sopra i mille metri: ricordo che nel grande capannone in cui si teneva un dibattito sul tema, ho aperto bene le orecchie quando Mercalli consigliava di vivere più in alto per sfuggire al caldo tropicale, diceva che sarebbe divenuta una necessità e che migreremo tutti in montagna. Ho pensato. Salirò in alto anche io. Adesso che sono qui, lo aspetto anche perché è una persona gradevole, ci mangerei insieme, insomma. Lo aspetto a cena, ma… che vengano solo alcuni. Se no, come facciamo a godere degli spazi sconfinati? La grande metropoli si potrà anche sparpagliare in tante località diverse, per esempio, perché gli altri non possono andare a rinfrescarsi al mare, dove potranno mettere i piedi nell’acqua, tuffarsi nel mare a febbraio dopo l’orario dello smartworking.  Alla fine di questa pandemia, distribuiamoci bene! Spero che non si trasformi in città anche il bosco accanto, penso, mentre mi manipolo un bottone della giacchetta con un po’ di sospetto. Chi sta parlando dentro di me? È una voce che mi è arrivata dritta e senza filtro, con lo stampino in serie, un pensiero tremendo: l’illusione di poter godere io sola di qualcosa e precluderlo agli altri. Credevo di essere una persona migliore. Procedendo per libera associazione, sembro quel famoso politico che assicurandoci: andrà tutto bene, l’Italia ce la farà, è poi sparito inabissandosi tra i flutti, portato via da un sottomarino tipo Nautilus del capitano Nemo. 
Il tempo interno è sempre più strano, a volte si dilata a dismisura, a volte tra pranzo e cena non passa nemmeno un respiro. Anche fuori il tempo varia in una infinità di modi, sembra quel luogo comune sugli inglesi. Chissà come stanno gli inglesi con Boris Johnson? Sono felice di essere in Italia.  Per gli inglesi il tempo atmosferico varia di ora in ora ed è sempre un argomento su cui innestare una conversazione ricca di spunti. Forse noi italiani tendiamo a parlare del passato idealizzandolo nostalgocamente. Quando a zappare la terra c’era mio nonno io lo inseguivo con una palettina di plastica. Era tutta rotta e tenuta insieme con lo scotch perché mentre lo imitavo e conficcavo anche io il mio ridicolo badile nella dura terra, si spaccava tutta: i miei potenti mezzi non erano all’altezza e la plastica blu si sfasciava contro il ghiaccio. Sono ancora quella bambina che non ha i potenti mezzi ma che fa la sua buca tenendo insieme un po’ le cose coi cerotti. Noto nell’aria già le prime mosche vive, non del tutto rintronate, il sole non è quello del gelo ventoso, è lucente e perforante, come se potesse cuocermi le ginocchia su una bella pietra ollare. È vero, di notte si gela, ma questa palla di fuoco enorme e infinita ogni tarda mattinata mi abbraccia e mi scalda; in città a malapena sapevo che esistesse e che viaggiasse sulla mia testa. La sua traiettoria era immobile, era più facile dire: che stupidi quelli che credevano che fosse il sole a girare attorno alla terra. Che egocentrici. 
A viverla così, sempre con il cielo spalancato sopra la testa e tutt’intorno, ci sarebbe da mettere tutto in dubbio: pianto gli spinaci e l’insalata, e lui è alle mie spalle, costruisco una serra, sbaglio, litigo con la cazzuola e lui si è già spostato in cima alla mia nuca, devo rimettermi al lavoro e lui è già scomparso dietro alle cime. Torno in casa pensando di aver vissuto una giornata, con il fiatone e le braccia indolenzite.  Pazienza se sono pessima, non leggo le bustine con le istruzioni: quale mese, quale anno, come far germogliare, come far crescere, quando innaffiare. Pazienza. Ora mi rimetto alle occupazioni mondane. Ed è definitivo: è il sole che gravita attorno alla montagna. Io sono rimasta ferma nell’orto tutto il giorno e lui se n’è andato, dunque è dimostrato, non sono io che mi muovo!

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isolamento in montagna 18

4/15/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO DICIOTTO
L’innalzamento delle temperature ci permetterà di godere qualche piccolo effetto positivo del global warming solo da sopra i mille metri: ricordo che nel grande capannone in cui si teneva un dibattito sul tema, ho aperto bene le orecchie quando Mercalli consigliava di vivere più in alto per sfuggire al caldo tropicale, diceva che sarebbe divenuta una necessità e che migreremo tutti in montagna. Ho pensato. Salirò in alto anche io. Adesso che sono qui, lo aspetto anche perché è una persona gradevole, ci mangerei insieme, insomma. Lo aspetto a cena, ma… che vengano solo alcuni. Se no, come facciamo a godere degli spazi sconfinati? La grande metropoli si potrà anche sparpagliare in tante località diverse, per esempio, perché gli altri non possono andare a rinfrescarsi al mare, dove potranno mettere i piedi nell’acqua, tuffarsi nel mare a febbraio dopo l’orario dello smartworking.  Alla fine di questa pandemia, distribuiamoci bene! Spero che non si trasformi in città anche il bosco accanto, penso, mentre mi manipolo un bottone della giacchetta con un po’ di sospetto. Chi sta parlando dentro di me? È una voce che mi è arrivata dritta e senza filtro, con lo stampino in serie, un pensiero tremendo: l’illusione di poter godere io sola di qualcosa e precluderlo agli altri. Credevo di essere una persona migliore. Procedendo per libera associazione, sembro quel famoso politico che assicurandoci: andrà tutto bene, l’Italia ce la farà, è poi sparito inabissandosi tra i flutti, portato via da un sottomarino tipo Nautilus del capitano Nemo. 
Il tempo interno è sempre più strano, a volte si dilata a dismisura, a volte tra pranzo e cena non passa nemmeno un respiro. Anche fuori il tempo varia in una infinità di modi, sembra quel luogo comune sugli inglesi. Chissà come stanno gli inglesi con Boris Johnson? Sono felice di essere in Italia.  Per gli inglesi il tempo atmosferico varia di ora in ora ed è sempre un argomento su cui innestare una conversazione ricca di spunti. Forse noi italiani tendiamo a parlare del passato idealizzandolo nostalgocamente. Quando a zappare la terra c’era mio nonno io lo inseguivo con una palettina di plastica. Era tutta rotta e tenuta insieme con lo scotch perché mentre lo imitavo e conficcavo anche io il mio ridicolo badile nella dura terra, si spaccava tutta: i miei potenti mezzi non erano all’altezza e la plastica blu si sfasciava contro il ghiaccio. Sono ancora quella bambina che non ha i potenti mezzi ma che fa la sua buca tenendo insieme un po’ le cose coi cerotti. Noto nell’aria già le prime mosche vive, non del tutto rintronate, il sole non è quello del gelo ventoso, è lucente e perforante, come se potesse cuocermi le ginocchia su una bella pietra ollare. È vero, di notte si gela, ma questa palla di fuoco enorme e infinita ogni tarda mattinata mi abbraccia e mi scalda; in città a malapena sapevo che esistesse e che viaggiasse sulla mia testa. La sua traiettoria era immobile, era più facile dire: che stupidi quelli che credevano che fosse il sole a girare attorno alla terra. Che egocentrici. 
A viverla così, sempre con il cielo spalancato sopra la testa e tutt’intorno, ci sarebbe da mettere tutto in dubbio: pianto gli spinaci e l’insalata, e lui è alle mie spalle, costruisco una serra, sbaglio, litigo con la cazzuola e lui si è già spostato in cima alla mia nuca, devo rimettermi al lavoro e lui è già scomparso dietro alle cime. Torno in casa pensando di aver vissuto una giornata, con il fiatone e le braccia indolenzite.  Pazienza se sono pessima, non leggo le bustine con le istruzioni: quale mese, quale anno, come far germogliare, come far crescere, quando innaffiare. Pazienza. Ora mi rimetto alle occupazioni mondane. Ed è definitivo: è il sole che gravita attorno alla montagna. Io sono rimasta ferma nell’orto tutto il giorno e lui se n’è andato, dunque è dimostrato, non sono io che mi muovo!
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ISOLAMENTO IN MONTAGNA 16

4/10/2020

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​ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO SEDICI
C’è un gran sole e non nascondo di aver provato un piacere immenso a montare una serra di plastica con mio figlio: ricordo che il nonno la faceva per salvare i germogli dalle gelate improvvise. Non so niente, ma vado a memoria e ritrovo tutto ciò che serve nelle ragnatele della legnaia. È come montare una tenda, ma senza istruzioni, senza camping, al freddo e senza chitarra. Per darmi un po’ di atmosfera canto E un altro giorno è andato di Guccini, spazzando via con il piede dei ragni morti e fingendo di non sentire mio figlio che commenta: “Canta malissimo…”, rivolgendo sottovoce la critica verso le mie abilità canore al Signor Cesare Marrali. Il gatto felice al massimo grado per un motivo che ci sarà ignoto per sempre, si scaglia a capofitto nel cespuglio di lavanda, con un salto felinamente calcolato alla massima precisione. Il punto è come mettere insieme i resti della struttura ideata forse negli anni Ottanta: è una lotta con i vecchi paletti per tenere il telo sollevato da terra, poi il grande foglio di plastica pesante deve essere ancorato al suolo tramite dei pietroni scovati qua e là nel prato. Semplice, avventuroso e molto pre-Quechua. Ci sono dei grossi chiodi arrugginiti da piantare dentro con la mazza. Ma quanto è bella la mazza? Che altro non è che un enorme martellone in metallo pesante, che maneggio cantando: Negli angoli di casa cerchi il mondo/nei libri e nei poeti cerchi te, in perfetto stile quarantena continuando sulla stessa canzoncina in loop. Mi sento potente come il nano del Signore degli Anelli. Avanza un sacco di materiale da giardinaggio da quando qui era in piena attività mio nonno e la sua organizzazione precisa per far andare la casa con il ritmo delle stagioni. Qualcosa che oggi è stato abbandonato, come la vecchia sega elettrica circolare che prendo in mano per un attimo, solo per sentirmi un po’ Faccia di Cuoio della saga Non aprite quella porta. Mi vedo mentre roteo la sega nel tramonto insanguinato e mi spavento un po’. La rimetto al suo posto con una scrollata di spalle. Ora che so dov’è, prima o poi mi sveglierò alle sei del mattino attivandola e aggirandomi per casa con uno o due metri di prolunga elettrica, chiameranno il Trattamento Sanitario Obbligatorio e mi cattureranno staccandomi la spina della sega e dicendomi: “Signora, ma non si vergogna? Venga che le diamo del Valium”, “Signora, la smetta di cantare Guccini agitando un’arma, che tanto guardi, il tempo andato non ritornerà!”. Così, mestamente, mi rimetteranno sul divano a rilassarmi guardando in televisione i grafici dell’avanzamento della pandemia. Non ho nemmeno la stoffa per essere una che viene colta da un serio raptus omicida.
Intanto lascio perdere la sega circolare e provo a vedere se riesco a diventare una montanara, facendo di necessità virtù. Mio figlio mi ricorda le favole di Esopo che gli leggevo quando era più piccolo: a lui piaceva “Topo di città e topo di campagna”; ecco: per ora sono solo la stravagante copia di una boscaiola (per altro del tutto deludente), sotto la quale si nasconde una topa di città col carnet della metropolitana in tasca. Io ci provo, mi accuccio a terra, in punta di piedi, poggiando i glutei sui talloni con un risparmio di spostamenti quasi altezzoso: se non arrivo alla paletta, scavo con le mani, se la busta non si apre e necessita delle forbici che sono in cucina, la strappo con i premolari. Cataloghiamo vasetto, semino e piantine di vario tipo. Avevo portato con me prima di partire delle bustine di sementi stravaganti: tipo la carota viola, la zucchina gialla, le rape blu, la patata dolce, quella arrabbiata, il sedano ficcanaso, la rucola incallita da fare invidia all’Esselunga e al suo copywriter. Mio padre commenta con mia madre che magari avessi piantato verdure normali! Io rispondo per le rime, sfoggiando con orgoglio la tanto declamata frase sulla bellezza della particolarità, l’orgoglio di essere diversi e la noia dell’omologazione; che se siamo ridotti in questo modo è solo colpa del mondo globalizzato. Poi, mentre nessuno mi ascolta ormai più, che non ho nessuna qualificazione scientifica per poter intervenire in ateneo-casa-montagna, apro una digressione sulla diversificazione del grano dall’antichità a oggi e argomento pedantemente, producendo il mio tipico borbottio di sottofondo in segno di protesta. Mi balena un dubbio importante: ma, in effetti, non dovrei forse ordinare online verdure normali e già piantate, semplicemente da mettere al sole e innaffiare ogni tanto? Ecco che ritorna in me la topa di città che vorrebbe ordinare su Amazon. E mentre squadro con fastidio l’abbandono che ho intorno, le sementi dai nomi impronunciabili, il disordine sgraziato di buste di plastica nell’erba, i segni del mio fallimento come agricoltore, il colorito di mio figlio che felicemente soffia nelle bolle di sapone e che è già annoiato dalla piantagione di rarissimi ortaggi arcobaleno che faranno indubbiamente schifo, mi coglie l’infinito.
Poi succedono due cose irreali: mentre sto zappando con lo stesso molle movimento di polso di una che tira i dadi sul tavolo del casinò, sento ronzare un moscone terrificante e su di me incombe l’ombra oscura di un mostro. Alzo timorosa lo sguardo.
È un drone.
Se non fosse stato annunciato al telegiornale, avrei pensato a un giocattolo, alle riprese della webcam del centro meteorologico, a un elicottero in miniatura, a uno di quei giocattoli telecomandati dai bambini dei vicini che viene a rovinare la mia privacy. No, è un drone della finanza venuto a controllare se anche qui e nel bosco ci comportiamo bene. Ho l’impulso superficiale e paleolitico di impugnare fionda e sasso, poi penso ai due poliziotti soli qui in montagna: magari sono stati mandati qui, lontani dalle famiglie. Magari hanno pescato totani da qualche parte fino a ieri, abituati alla calorosa estroversione del Sud e invece stanno qui, isolati, tristi, a gelare con noi, che invece abbiamo scelto la casa nel bosco proprio per introversione patologica. Forse, uno dei due poliziotti, nostalgico, stanco della solitudine, sta un po’ divertendosi a sbirciare cosa facciamo qui in alto, di fianco al crocicchio che fa partire i sentieri. Ha ricevuto fresco fresco dalla Protezione Civile questo drone, questo elicottero-baby munito di telecamera che gli mostra la libertà e il verde degli abeti. Che poi il verde dei prati è di centinaia di gradazioni diverse in base all’altitudine, all’umidità, alla luce che si rifrange. L’intrepido finanziere si sarà goduto l’esperienza di avere una veduta panoramica sui prati, i pendii opacizzati dai rovi, le macchie boschive illuminate dagli aghi splendenti dei Deodara. Poi avrà pensato di passare a trovarmi. Non voleva mettermi in soggezione, credo. Certo, da adesso che gira il drone forse dovrò pensare di smetterla di fare il saluto alla montagna sporgendomi a torso nudo dalla finestra. Pazienza. Già non avevo più l’età.
Non credo che il signor drone possa sparare anche pallini su me o sul Signor Cesare Marrali per abbattere i fuggitivi; si annoiava e si è soltanto fatto un giro fino a su, per rifarsi gli occhi con il sentiero che via via si fa sporadicamente innevato. E in effetti è meraviglioso. Da piccola mi chiedevo, ingenuamente, come fosse vivere qui, andare a scuola qui, restare sempre col prato sotto i piedi e il busto proteso a guardar la valle. Venivamo solo a trovare la nonna d’estate. Anche da ragazza mi turbava l’idea che non si potesse scegliere di abitare qui, dimenticare se stessi e la pressione sociale, vaporizzandosi nel panorama.
Mentre sono immersa nei pensieri, dopo che il drone se ne è andato da un pezzo, sento una macchina. Oggi che succede, mi dico, rischiando di tirarmi la mazza sulla rotula. L’auto, con le sue quattro ruote motrici, frena fragorosamente accanto al nostro cancello: più in alto non si può andare senza rovinare le fiancate con i rovi. Una signora abbassa un vecchio finestrino a manovella cigolante che è ancora più sinistro del drone-macchina e si sporge a urlare dal finestrino: “Nonno! Allora! Tredici messaggi e non rispondi? Ti continuo a chiamare! “
Il nonno replica dalla finestra, affabile: “Madonna t***a, porco d*o!”.
Non ha altro da dire
La signora non sembra minimamente alterarsi di fronte alle potenti bestemmie del nonno, che naturalmente echeggiano nella valle: “Allora rispondi, no? Se stai bene…”, lo rimprovera. Il nonno non dice nulla, la signora neanche. Si limita a riavviare il motore, percorrere qualche metro, fermarsi e affacciarsi di nuovo per commentare con la vicina che abita nella villetta di sotto: “Sì, è il nonno. No, non vedo miglioramenti”.
Dapprima penso si riferisca alla malattia, poi realizzo che forse sta parlando del carattere del nonno, un po’ suscettibile. A quanto pare, non è migliorato con la quarantena, e meno male che dovremmo tutti trovare una nuova spiritualità. Comunque, a suo modo, il nonno l’ha trovata una solida spiritualità, l’ha condivisa con tutta la vallata e dimostra di stare bene.
E, per un attimo, tutti ci uniamo a lui solennemente.

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isolamento in montagna 15

4/3/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO QUINDICI
Inizia una nuova settimana, non le ho contate, quante sono? È metà marzo, la quarta settimana che siamo qui. Mi limito ad annotare il fatto per non rischiare di scivolare nello scarico del water mentale del facciamo le previsioni. Mi alzo di scatto. Mi lavo. Ascolto la radio mentre sono in bagno: sono solo dieci minuti di notiziario. È inevitabile: mi preoccupo per la settimana, per il futuro, per la vita, per la morte, per la sofferenza. Strano pensare che sia lunedì. Presa da una specie di obbligo esistenziale consegno il lavoro che mi è stato chiesto: ci sono molte idee, sono ordinate, le ho finite di domenica perché integro usando il weekend le ore che non riesco a finire di fare giorno per giorno. Da una parte non so esattamente che senso abbia continuare a interfacciarmi con gli altri: ho paura di perdere la chiarezza, i perché lo fai, di non riuscire a prevedere lucidamente le direzioni che prenderemo. Ho paura di perdere tempo. E allora mi sembra essenziale vivere il giorno presente. Stare un anno intero in montagna a guardare tutto quello che cambia intorno, non parlo di quando arrivano i saldi o iniziano a vendere le fragole. C’è una nebbiolina splendente che sventola sfumando la neve con le nuvole basse e il cielo. La vista è gratificata dalla profondità di questo spazio, il vero privilegio per un umano. Il resto dei sensi è ubriacato dall’ascolto della temperatura atmosferica, dal nutrimento, dai rapporti tra di noi. Ci alleniamo ad ascoltare l’altro o rassicurarlo che lo stiamo ascoltando. Importantissimo anche l’addestramento a non sentire: mentre scrivo ho come sottofondo qualcuno che suona la tastiera (modalità violino), nella stanza contigua mio padre guarda le video notizie ad alto volume, in lontananza la fioca voce di mia mamma al telefono che raffronta i dati e le terapie con un’amica e collega mentre stira. È un’immagine dissonante: invece di confrontarsi su quale temperatura del ferro sia più adatta a stirare i colletti, si stanno scambiando idee e dati per le terapie antiretrovirali, quali antibiotici e con quale posologia, che livello si sperimentazioni ci siano e che meccanismo di infiammazione si scateni a livello polmonare. Strano, perché la natura dalla finestra si presenta avvolta in un silenzio disumano e, in casa, al contrario, pochi umani ammassati in unico luogo sono in grado di produrre una concitazione acustica inconfondibile. Tipo lo sciacquone chiassoso del water: si finisce inevitabilmente per contare quante volte è stata azionata la potentissima leva dello scarico del bagno. Non provo alcun fastidio, mi diverto a constatare che se per qualcuno non c’è nulla da fare, per noi le giornate sono un tumulto: chiamate imperative, emergenze assolute, attività scolastiche elaborate, abbinare vocali a stampate di schede in power point, elettrodomestici che si rompono, la routine dei riscaldamenti quando scende il freddo, della legna per cucinare, le necessità dei gatti, le necessità di ciascuno. E tutto da dentro, come la confusione mentale di un instabile nevrastenico. È raro che il richiamo arrivi da fuori e se succede è un evento che mette tutti in allarme, come l'elicottero che mi è passato sopra la testa mentre ero nel prato, la voce della signora che abita nella strada di sotto, il suono del vecchio campanello, che fa proprio un isterico driin in stile anni cinquanta, provocando una specie di sbalzo cardiaco che spero non sia capace di assassinare uno dei miei genitori. Si accorre alla porta. Si prende in mano la maniglia, poi ci si ripensa e si mette il guanto e una sciarpa in faccia. Per un attimo penso che sia uno scherzo di mio figlio, tanto mi sono disabituata all’esterno. Anzi, a direi il vero vorrei proprio che fosse uno scherzo del figlio e mettermi a giocare e basta. Caccia al tesoro! Lanci sul letto! Apro, con la faccia della mamma in rimprovero pronta a dire: “Non farmi scendere per niente…” ed era il corriere. Non c’è nemmeno il rischio reale che ci si possa fare una risata per una gaffe, “Oh mi scusi, sa, credevo fosse mio figlio e stavo per sgridarla”. Non incrocio mai il corriere. Chi fa le consegne nelle case ormai non scambia parole: viene a portare la spesa bardato e avvolto nella tuta da lavoro, fugge come un fulmine prima che arrivi l’inquilino, rimette in moto frustando i cavalli. Per qualcuno stiamo trascorrendo Giornate senza senso, come un mare senza vento, parafrasando Guccini. Non lo so. Ancora non mi sento soffocare davvero, come mai? Forse non mi manca tutto della vita di prima, non mi mancano quegli angoli di giornata in cui lo scorrere del tempo era accompagnato da attività che svolgevo per procura, che svolgevo in uno stato di ipnosi, spinta da un andare avanti che non sempre è una scelta. Riesco a ritirarmi per riordinare la lista delle cose da fare e mi fermo. Ma fare cosa e per chi? Mi trovo a guardare indietro con occhio critico le persistenze di vuoto che riempivano il tempo con questioni di nessuna importanza vera, privandomi di secondi, minuti, giornate intere. Facendomi sorgere un’ansia crudele. Risucchiata in una specie di tubo aspirante troppo stretto per poter contenere tutti gli enormi sogni di una che è nata il giorno di Natale.
Cosa avrei fatto oggi nel mondo civilizzato pre-virale? 
Guardo il calendario. Oggi avrei dovuto presentare il romanzo in una scuola di Pavia. Mi dispiace non esserci, era una di quelle attività che mi sembravano andare nella direzione più sintonica con il senso che voglio dare alla vita, lo penso sinceramente, dato che ho passato in rassegna tutte le zone d’ombra. Quanti progetti sparpagliati in ogni campo! Mi vedo in una specie di ideale fotografia, sono impegnata, tengo la barra della vita con due mani e tutti gli sforzi possibili, cercando di andare dritta, ma, infine, mi sembra sempre di stare in mezzo a un mare in tempesta. Crollo. Mi rialzo. Mi sconquasso di domande esistenziali. Devo imbastire meglio la trama del mio futuro, sono come una stilista che fa abiti per millepiedi. Forse devo provare a seguire la corrente?
Forse devo assecondare i venti?
Forse mi devo intestardire di più?
Forse, per il momento, non importa.
 

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA 14

4/2/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO QUATTORDICI 
Un sole meraviglioso.
Videochiamata con i parenti in Francia, mi mancano, ci mancano, finalmente li sentiamo. Avevo atteso con una certa frenesia questo contatto con persone dotate di buon intelletto che vivono fuori dalla nostra nazione. Li vedo nel salotto, sembrano allegri: per loro inizia oggi, non sanno che in casa e fuori voleranno coltelli nel giro di poche ore. Sono lì, belli tranquilli a cucinare gli épinards e a programmare la spesa online. Si prenderanno a schiaffi anche i francesi, come tutti noi. I lombardi non hanno niente di strano: anche da loro girerà l’invito a resistere, che alla fine si tratta solo di passare qualche giorno sul divano. Forse sui social imperverseranno gli attori in diretta che leggono la Recherche di Proust anziché la Storia della colonna infame di Manzoni. E sarà lunga, molto lunga. Quanto può durare una diretta dalla quarantena?
Faccio un bagno, c’è un unico boiler che può raggiungere gli ottanta novanta gradi e, di solito, appena finisce di riempire la vasca in ceramica freddissima, l’acqua è a quaranta gradi. Quando entro è a trenta gradi, appena mi insapono inizia a gelare seriamente. È terribile, ma lavarsi è un privilegio. L’acqua calda in cui di tanto in tanto decidevo di passare un’ora o più a leggere indisturbata per levarmi le preoccupazioni dal corpo è un vecchio ricordo, qualcosa che appartiene alla vita da single, nemmeno più alla famiglia, qualcosa che questo boiler elettrico del millenovecentocinquantacinque non permetterà. Poco male. 
Incastrata nel mio quadratino osservo la bella scrivania di lusso in stile liberty, coperta da un centimetro di marmo verde scuro, la cassettiera con i classici cinque elementi: due cassettini più piccoli in verticale a sinistra, uno centrale lungo, due in verticale a destra. La sedia imponente. È poco importante? In quarantena a fissare una scrivania dei primi del Novecento e pensare: avrò già osservato con cura i quadri? Ne conto sette. Due sono le nature morte, c’è una Madonna e altre piccole cornicette. Un numero infinito per una cella di un metro e mezzo/due per due e mezzo. La prossima settimana potrei osservarne uno al giorno e magari descriverlo: sarebbe una bella occupazione quando mi viene in mente la caducità della vita. E poi potrei passare a guardarmi alla specchiera che sale su dalla scrivania e dentro alla specchiera potrei ricominciare a guardarmi negli occhi. In realtà mi accorgo che a poco a poco, negli angoli remoti della mente, avevo già raccolto i materiali che ora devo solo scrivere. Come si dice? Quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando. 
Alle due di notte mi piglia malissimo: mi sveglio inquieta e in cinque minuti compro su Amazon i cibi liofilizzati per i militari. Dopo aver fatto COMPRA, ho capito che ho fatto la cazzata che hanno fatto tutti, ma è stato un gesto impulsivo. Troppo tardi. Mollo il cellulare e mi addormento di colpo. 
 

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA 13

4/1/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO TREDICI 
Scendo in farmacia con la tuta spaziale, incuriosita da questa nuova normalità che mi spinge a notare, nel vuoto del paese, le gradazioni di grigio delle pietre, la temperatura esatta dell’aria che respiro, la percentuale di inclinazione di una strada in discesa mentre ritiro il farmaco per la pressione. Il parafarmacista (il commesso della parafarmacia) mi avvisa che non ci saranno rifornimenti molto presto per via del virus. Mi vien voglia di mettermi il Braulio negli occhi per disinfettarmi.
Nevica. È bellissimo ma torno. 
Mi chiudo nel mio stanzino del lavoro. Il letto sul quale mi siedo con un cuscino sulle cosce e il computer poggiato sopra è davvero uno spazio angusto, sembra di essere nella cuccetta notte di un vecchio treno. Se penso che qui ha dormito per anni il badante di mia nonna, che fumava alla finestrella guardando il cedro dell’Himalaya e pensando a quando faceva il marinaio, vengo travolta da un lungo momento di nostalgia. 
È pronto, viene urlato in due occasioni principali, quelle dei pasti, per il resto riguarda solo altre sporadiche secondarie caffettiere sparse nelle 24 ore.
Pizza per tutti. Pizza e delirio, ovvero: non era pronto, era una trappola. Bisognava tirare la pasta, e mentre impugno il mattarello si alternano varie voci…
Hai messo il pomodoro? Perché usi la salsa fatta da me? La mozzarella prima o dopo? Qualcuno ha rinfocolato la stufa a legna? Il forno è sceso. Metti legna grande, mettila piccola, la stiamo perdendo, ha ripreso, sta raggiungendo i quattrocento gradi, a che temperatura fonde il ferro? Facciamo delle spade, già che ci siamo. 
Questi i dialoghi che si diramano nella disordinata realtà quotidiana che è diventata già abitudine quasi per tutti. È una specie di ritorno all’interiore, come essere in un grande utero tutti a mangiare, scossi ogni tanto o poco da qualche dissapore. Non so se prima o poi qualcuno di noi esploderà, non sono allenata, non ho mai avuto la curiosità di guardare per più di cinque dieci minuti gli esperimenti televisivi in merito alla convivenza nella casa e sono sprovvista di nozioni in merito a chi veniva buttato fuori dagli altri e perché. Non mi interessava, invece adesso mi sarebbe stato utile aver studiato le dinamiche da osservatrice esterna. Me lo merito, così imparo a fare la snob con i programmi di tendenza. E niente, la sera leggiamo Il richiamo della foresta e mio figlio mi chiede se moriremo anche noi. Rispondo di no, negando completamente la realtà.
Però… anche ne Il richiamo della foresta muoiono tutti ‘sti cani! Non ho mai letto un libro con una strage di cani così tremenda: alla fine quando la slitta precipita nel fiume ghiacciato e ne muoiono quattro in una riga sola, mi viene da ridere e cambierei la trama. Ma come? Anche nella versione di Geronimo Stilton muoiono? Non mettono i braccioli e raggiungono l’altra riva per poi fuggire verso la primavera? Io volevo che il topo per bambini edulcorasse un po’, se no a questo punto, se non mi svia dai concetti inaffrontabili, la prossima volta faccio meglio a leggergli direttamente Jack London. Infatti. Perché no? Quanti libri mi resteranno da condividere con la sua infanzia? Vanno scelti molto bene. 
Mi prende la paranoia della scelta del libro essenziale e del cammino del tempo che mi scaglia a tutta velocità verso l’inevitabile e verso la separazione. Penso di essere fortunata a essere costretta a condividere con lui tutto il tempo insieme, non solo tempo di qualità ma proprio quantità e vicinanza. Alla peggio sono dietro a una porta a tre quattro metri da lui, sento che queste distanze accorciate gettano una specie di profondità in più nel nostro rapporto. Questo è un lusso di cui possiamo tranquillamente lamentarci.  
Faccio le tre di notte per vedere un notiziario speciale. C’è un conduttore grasso che parla solo con uomini grassi. A parte uno, credo abbia scelto solo esperti grassi, chi con la cravatta tesa sulla pancia, chi con il bottone che tira. La cosa che fa strano è vedere le case della gente nei paesi, la maggior parte ha un che di architettura anni ’50, credo. Mi sembra che ognuno debba identificare chi lo rassicura e poi, dopo aver tirato un bel respiro, aver ascoltato una meditazione guidata verso la serenità e il sonno, riprendere lo smarphone a tradimento e iniziare a caso a leggere fake news che ci trascinino nel terrore. E non chiudere occhio. Lasciatemi questa libertà. 

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