ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO SEI
Oggi c’è un sole che davvero è meraviglioso, sento il senso di colpa grave di non lavorare in un giorno lavorativo, ma posso farcela a superarlo, in virtù di una situazione meteorologica paradisiaca. Mi siedo in giardino e mi immagino di andare a sciare. Sono sulla pista e mi sento la sciatrice più triste, più ermetica, più scostante di sempre. Nella veste della turista sportiva la mia intuizione poetica, il mio sistema di pensiero e riflessione, il mio indugiare sulle atmosfere estetiche del paesaggio viene comunemente chiamato: “Ehi, lo vogliamo prendere il piattello o stiamo qui a fare notte?”, e così mi prendo lo skilift tra le gambe e non so perché mi vengono in mente i Krampus, questi diavoli della tradizione folcloristica che avevo studiato al corso di antropologia. Ricordo il documentario che mostrava questi tizi travestiti da demoni che piombavano a dare grandi mazzate a tutti. Non c’è collegamento logico alcuno: una specie di divinazione, mi viene da dire pensando ad alcuni scritti di Artaud. Sciare risveglia in me una combinazione di sentimenti atavici: mi viene voglia di morire. No, davvero: salgo su per la montagna e mi sento male. Mi viene voglia di scappare a gambe levate mollando tutto lì nella neve, girare la schiena alla fila di sciatori che si affolla in cerca di un piatto di polenta e salsiccia. Guardo come degli strani esseri quelli che si lanciano negli slalom giganti con eleganza gridando: “È una giornata fantastica, incredibile! Evviva!”. Ecco, io amo scivolare nel vuoto, ma lo faccio più perché entro in contatto con quel desiderio di lasciarmi cadere: potremmo chiamarla angoscia e abbandono. Mi viene in mente che non dovremmo disturbare questo ecosistema con la nostra presenza e dovremmo solo stare in silenzio. E così sono divisa in due: da una parte la sensazione di volare, che è stupenda, dall’altra quella di essere fuori posto: mi metto a guardare i burroni, individuare un dirupo perpendicolare e profondo, cercare un crepaccio. Fortuna che poi finisce tutto, anche questa fantasticheria, e torno a essere a casa nel mio isolamento a guardare mia madre che, con il ginocchio sempre più gonfio, lucida ancora il vetro della stufa, lo chiude, fa partire l’accensione e io, seduta e felice, osservo che in tre secondi netti ritorna nero. Lo trovo fantastico: questa attività non avrà mai fine, è come Penelope, il vetro dovrà essere lucidato ogni volta e non c’è la più recondita possibilità che il bruciatore non affumichi la lastra trasparente apparentemente ignifuga. Il moto perpetuo è la nostra salvezza: una scoperta straordinaria. Nella chat di classe di mio si sente che il vero dramma culturale in Italia è: dove cazzo mettiamo i bambini se non vanno a scuola a studiare? Le soluzioni proposte dalle madri anche in rete e sui giornali, nei post e nella messaggistica sono tante. Le “smart lessons”, lezioni in video, Power Point, il niente totale, chi dice che non farà fare attività ai figli, chi teme che si trasformino in selvaggi, chi lo desidera chi si fa spedire i libri e i quaderni, chi deve reperire una stampante. Non lo so. È molto complesso, ognuno ha la sua personale drammatica situazione. Io sono per i cartoni educational. Secondo me potremmo dare una bella laurea in medicina a chi arriva al termine della serie completa di Esplorando il corpo umano, che a casa mia va per la maggiore ed è corredata dalle puntualizzazioni in gergo scientifico dei miei genitori come una vera mini lezione universitaria precoce. In altre famiglie di cui ho sentito parlare, ove si apprezza l’ingegneria, qualche bambino è divenuto progettista della Lego pronto a stipendi ben più alti di quelli previsti in Italia per la professione. Intanto nel mondo reale ci sono le prime lauree via Skype e si discute la tesi attraverso la webcam, il Politecnico è il primo. Usciremo da questa epidemia investendo sull’istruzione pubblica e spero soprattutto sugli ospedali pubblici.
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