ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO TREDICI
Scendo in farmacia con la tuta spaziale, incuriosita da questa nuova normalità che mi spinge a notare, nel vuoto del paese, le gradazioni di grigio delle pietre, la temperatura esatta dell’aria che respiro, la percentuale di inclinazione di una strada in discesa mentre ritiro il farmaco per la pressione. Il parafarmacista (il commesso della parafarmacia) mi avvisa che non ci saranno rifornimenti molto presto per via del virus. Mi vien voglia di mettermi il Braulio negli occhi per disinfettarmi. Nevica. È bellissimo ma torno. Mi chiudo nel mio stanzino del lavoro. Il letto sul quale mi siedo con un cuscino sulle cosce e il computer poggiato sopra è davvero uno spazio angusto, sembra di essere nella cuccetta notte di un vecchio treno. Se penso che qui ha dormito per anni il badante di mia nonna, che fumava alla finestrella guardando il cedro dell’Himalaya e pensando a quando faceva il marinaio, vengo travolta da un lungo momento di nostalgia. È pronto, viene urlato in due occasioni principali, quelle dei pasti, per il resto riguarda solo altre sporadiche secondarie caffettiere sparse nelle 24 ore. Pizza per tutti. Pizza e delirio, ovvero: non era pronto, era una trappola. Bisognava tirare la pasta, e mentre impugno il mattarello si alternano varie voci… Hai messo il pomodoro? Perché usi la salsa fatta da me? La mozzarella prima o dopo? Qualcuno ha rinfocolato la stufa a legna? Il forno è sceso. Metti legna grande, mettila piccola, la stiamo perdendo, ha ripreso, sta raggiungendo i quattrocento gradi, a che temperatura fonde il ferro? Facciamo delle spade, già che ci siamo. Questi i dialoghi che si diramano nella disordinata realtà quotidiana che è diventata già abitudine quasi per tutti. È una specie di ritorno all’interiore, come essere in un grande utero tutti a mangiare, scossi ogni tanto o poco da qualche dissapore. Non so se prima o poi qualcuno di noi esploderà, non sono allenata, non ho mai avuto la curiosità di guardare per più di cinque dieci minuti gli esperimenti televisivi in merito alla convivenza nella casa e sono sprovvista di nozioni in merito a chi veniva buttato fuori dagli altri e perché. Non mi interessava, invece adesso mi sarebbe stato utile aver studiato le dinamiche da osservatrice esterna. Me lo merito, così imparo a fare la snob con i programmi di tendenza. E niente, la sera leggiamo Il richiamo della foresta e mio figlio mi chiede se moriremo anche noi. Rispondo di no, negando completamente la realtà. Però… anche ne Il richiamo della foresta muoiono tutti ‘sti cani! Non ho mai letto un libro con una strage di cani così tremenda: alla fine quando la slitta precipita nel fiume ghiacciato e ne muoiono quattro in una riga sola, mi viene da ridere e cambierei la trama. Ma come? Anche nella versione di Geronimo Stilton muoiono? Non mettono i braccioli e raggiungono l’altra riva per poi fuggire verso la primavera? Io volevo che il topo per bambini edulcorasse un po’, se no a questo punto, se non mi svia dai concetti inaffrontabili, la prossima volta faccio meglio a leggergli direttamente Jack London. Infatti. Perché no? Quanti libri mi resteranno da condividere con la sua infanzia? Vanno scelti molto bene. Mi prende la paranoia della scelta del libro essenziale e del cammino del tempo che mi scaglia a tutta velocità verso l’inevitabile e verso la separazione. Penso di essere fortunata a essere costretta a condividere con lui tutto il tempo insieme, non solo tempo di qualità ma proprio quantità e vicinanza. Alla peggio sono dietro a una porta a tre quattro metri da lui, sento che queste distanze accorciate gettano una specie di profondità in più nel nostro rapporto. Questo è un lusso di cui possiamo tranquillamente lamentarci. Faccio le tre di notte per vedere un notiziario speciale. C’è un conduttore grasso che parla solo con uomini grassi. A parte uno, credo abbia scelto solo esperti grassi, chi con la cravatta tesa sulla pancia, chi con il bottone che tira. La cosa che fa strano è vedere le case della gente nei paesi, la maggior parte ha un che di architettura anni ’50, credo. Mi sembra che ognuno debba identificare chi lo rassicura e poi, dopo aver tirato un bel respiro, aver ascoltato una meditazione guidata verso la serenità e il sonno, riprendere lo smarphone a tradimento e iniziare a caso a leggere fake news che ci trascinino nel terrore. E non chiudere occhio. Lasciatemi questa libertà.
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