ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO DIECI
A me sembrava già sufficiente la giornata di ieri, invece no: e non sono le misure ancora più restrittive il vero pandemonio. Tra supermercati ingolfati, spesa online sempre più complicata, lezioni per bambini da scaricare stampare e abbinare a vocali inviati per messaggio, capita che mi venga offerto un lavoro. Mi chiedono se posso. Dico “Beh, sì”. Sto scrivendo tutta rannicchiata, la schiena incagliata nell’angolo della stanza, appollaiata su un letto piuttosto duro, completamente in ombra. Questo è lo spazio che ho trovato, il lettuccio addossato a una parete color crema, due quadri di nature morte a olio di pittore sconosciuto dalla firma orgogliosamente marginale. Nella camera accanto sta lavorando il marito, risuona la voce prima in inglese poi in italiano, si dispiace che qualcuno sia crollato. Di coronavirus? Penso. No, ascolto meglio, si riferisce alla connessione. È crollata la connessione. E per fortuna, sono fatalista, se ci isoleranno davvero io lo accetterò e ne trarrò un risanamento mentale disintossicandomi dall’idea di essere sempre reperibile. E il letargo? Non lo vogliamo considerare il letargo? Che si mangerà per cena? Avranno bisogno di me per accendere la cucina a legna? Sarà pieno finalmente il boiler dell’acqua calda che devo lavarmi i capelli? Come saranno i numeri dell’epidemia oggi? Che faranno i miei? Che farà mio figlio? Che faranno al governo? Perdo il focus ogni due minuti ma non posso permettermelo, ho tempi contingentati per essere creativa, devo approfittare prima che il tempo scada. Mi sforzo di tornare a me stessa. Non ho parole per descrivere come sono ridotta, ormai vesto abiti larghi in più strati e coperte buttate sulle spalle, qui fa freddo e per non seccare troppo l’aria con la fiamma della stufa a Pellet mi copro con ogni tessuto spesso e potenzialmente riscaldante che trovo in giro, non importa se è il ritaglio di coperta del gatto, me lo metto addosso con tutti i peli che anche quelli aiutano a trattenere il calore. La mia faccia non mi convince da qualche giorno, mi sono lasciata alle spalle (forse per sempre) i lineamenti gradevoli del viso che tentavo di tenere in buona forma nonostante tutta la mia fisionomia stia pericolosamente sporgendosi oltre la soglia della giovinezza. Sembra che io abbia messo i capelli nella lavatrice in centrifuga. La pelle inizia a macchiarsi. Il mio colorito ha dei riflessi che oscillano tra il verde petrolio e il verde bandiera nonostante l’aria buona di quassù. Probabilmente è perché non teniamo conto del monossido di carbonio che stiamo respirando ogni notte in cui lasciamo la stufa accesa. Oggi è arrivato un pacco di mutande basic nere e pantaloni larghi di felpa, neri, per me è la tenuta da lavoro, la divisa da casa. Dobbiamo disinfettarci tutti, a partire dall’ ingresso, dobbiamo scartavetrare la carica batterica delle soglie, insistere a scrostare le orme del tempo dal linoleum degli anni ’50, disattivare l’infettività dell’aria, dobbiamo farlo subito, insistentemente, tutti insieme e ciascuno a casa sua. Devo ringraziare che al risveglio da sogni inquieti non mi sono trasformata in un enorme scarafaggio e che lo stanzino mi sia di riparo e non sia una prigione come per molte altre donne. Guardo la finestra che dovrebbe aiutarmi a rigovernare i pensieri, c’è il Cedro dell’Himalaya, il mio grande riferimento spirituale: ancheggia imponente e brillante al vento sottile della sera, ne osservo la cima alta che si staglia nel cielo, i rami rigogliosi e danzanti, il tronco… ma mio figlio, perché è in giardino in ciabatte? Non doveva fare i compiti? Non importa, li farà l’anno prossimo, se saremo vivi e se esisterà ancora una società occidentale. Mi rimetto sul mio lavoro che non ha nulla di tangibile, che ne so: non igienizza una finestra, non mette su un muro di mattoni, non fa neanche lievitare il pane, sono terribilmente mortificata. Calpestando il linoleum (sono quattro passi dalla porta alla finestra), mi accorgo di quanto sia sporco il microhabitat dal quale tento di esercitare una cosa mentale, sì ma che cosa sto facendo? C’è un obiettivo? Siccome non lo so stamattina ho provato a farmi aiutare dal grande creatore di Senso: all’APP STORE. Ho scaricato un’applicazione per evitare la procrastinazione, ci sono dei gatti e con quattro ciotole di pappa. Ogni 24 minuti, se hai lavorato bene, puoi riempire la ciotola di pappa con un click e il gatto è felice, se non lo hai fatto il gatto si lagna che non gli dai da mangiare. Bene. Io ne ho appena ucciso uno, me lo notifica il telefono all’istante. Vorrei progettare un oggetto e guardare che ne uscirà fuori, non so, magari un frullatore, non so, una lampada. Mi sistemo alla scrivania ma non va bene, alla porta arriva un nuovo suono. Mancava al campionario: è un suono legnoso, ripetitivo, come se ci fosse un alveare di api ronzanti, però è più intermittente, no, più assillante. Stavolta capisco meglio: un graffio, un’unghietta contro il legno, non è lo sbattimento dello scopettone. Non è lo spry detergente. Giro la chiave, apro. È il Signor Cesare Marrali. Il gatto. Stanotte ha svegliato tutta la famiglia perché non è castrato e attorno alle 3 di notte sembra che abbia tentato di accoppiarsi con la mia, che non era d’accordo. C’è un rovescio della medaglia anche a non venire castrati, uno si crede di potere fare qualunque cosa. Glielo dico: “Signor Marrali! Ljuba ha 18 anni. Vuol dire che è la tua bisnonna, la smetti di urlare dalla voglia di accoppiarti che poi le prendi?” Lo faccio entrare. Entrambi soffriamo in ogni centimetro cubico vuoto di questo stanzino woolfiano. Lui si lecca le balle e si appallottola sul micro-letto della “celletta tutta per me”. Ascolterà la conference per il nuovo lavoro tangibile e -forse - se faccio bella figura, remunerato. Ma come siamo diventati schiavi e schiavisti di noi stessi senza avere nemmeno un padrone? Io so già che lavorerò lo stesso e sarò la più severa giudice del mio operato, senza nemmeno sapere se lo sforzo vale il compenso. Questa voce della coscienza è assordante, ma come zittirla in una giornata senza eventi? Quando non hai accadimenti di particolare rilievo non fai altro che ascoltare dentro e fuori, la voce dentro e i suoni fuori. Evito di rendere la convivenza ulteriormente insopportabile. Sento grattare di nuovo lo stipite. Apro. Questa volta è la mia gatta, quella anziana. Quella che Cesare lui ha tentato di farsi nel cuore della notte. Parte una zuffa. Peli, soffi, miagolii infernali, i due gatti sono trasfigurati in due serpenti a sonagli: anche i rapporti tra animali sono così complicati che non mi sento di intervenire in modo logico per migliorare la situazione, vado di istinto. Prendo Cesare Marrali per la collottola, lo butto fuori e mi tiro sul letto la mia gatta anziana, che è incazzata nera e soffia anche a me. In pochi minuti si sistema a guardare fuori dalla finestra, c’è un davanzale interno in legno di una decina di centimetri; lei pare accomodarsi bene. Vede qualche corvo appollaiato sul pino e gli rivolge dei versi da gatta. Tipo: “se non ci fosse questo vetro spesso tu saresti già morto”. Da dietro la porta, il gatto che ho buttato fuori inizia a fare “meeeooow meooow” come fosse un neonato in preda alle coliche. e, in questo clima sereno, dalla stanza accanto si sente chiaramente: “Hi, Alan”, come se Alan fosse dall’altro lato della montagna e non all’altro capo del telefono. “Hi Alan!”, mi pare ci sia l’eco: “Alan… Alan!”, ti salutiamo tutti da questa valle, mandaci delle arance, che sono finite. Perché è successo anche questo: era uscito un post che parlava degli effetti salvifici della vitamina C, il giorno dopo non c’era nemmeno più una Zigulì in commercio. In un periodo di paura senza freni, tutti sono corsi a svuotare gli scaffali prendendosi le arance e lasciando al loro posto delle inquietanti cassette vuote: le rinomate arance di montagna paiono avere qualità vitaminiche inossidabili. In compenso nessuno aveva toccato i pompelmi… forse i pompelmi non sono ricchi di vitamina C? non lo so e non lo cercherò su google. Mi sto distraendo di nuovo. Perché continuo a distrarmi? “Meooowww” fa il gatto fuori, mentre la mia invece insulta ancora un pettirosso o una ghiandaia, non so niente di uccelli, io, e fa un verso tipo motore della Fiat Panda ingolfato. In questo ambiente sonoro pacifico, mentre Alan viene più volte salutato nella call della stanza accanto, cerco di trasformarmi in una persona assennata che lavora con appuntamenti organizzati e una certa quiete lavorativa. Saluto imitando una calma da guru indiano. A fine serata mi aggiro dubbiosa nello stanzino: quattro passi fino alla porta, dietrofront, quattro passi fino alla finestra; così per cinque, sei volte, poi… lo vedo: è un orrendo corvo nero e si è piazzato proprio sul ramo davanti alla finestra, sfacciatamente, come se non ci fossero degli animali feroci ad abitare questa casa. Ha ragione la mia anziana gatta. Mi siedo accanto a lei, dietro al vetro e, senza emettere suono, solo con il labiale, in accordo con il felino, lo mando anche io a fare in culo.
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March 2021
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