ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO VENTI
Osservo il sentiero dal cancello di legno e cerco di prendere un poco d’aria: non c’è nessuno qui sopra, ma ugualmente il limite è invalicabile. Mi viene da pensare: se balzassi fuori sarei nell’immensità… che strano concetto, una parola che ha una consistenza proprio da urlare, mi vedo che faccio il balzo e ululo: “nell’immensitaaaaa!”. Mi sembra impossibile che ci sia un pericolo o un divieto. Chi potrei incontrare? Neanche finisco di formulare il pensiero che mi accorgo di tutti gli altri. Pare che una moltitudine di piccoli cappellini abbia avuto lo stesso desiderio di saltellare come camosci sulla nostra testa. Nell’immensità. Non sapevo ci fosse tutta questa gente libera di darsi alla macchia, quante case ci sono sul mio stesso versante della montagna? Chissà se oltre il muro fitto del bosco si cela un frenetico formicaio di uomini semi invisibili, dietro ogni albero una sagoma. Chissà se si rischia di incrociare i fuggiaschi, come partigiani sparpagliati nella macchia, è strano, è come se si rianimasse un quadro del passato. Probabilmente è un’allucinazione ma mi sembra di vivere uno strano contatto tra epoche diverse: sotto gli abeti e accanto ai muschi non si è a rischio come in città, come tra gli scomparti pericolosi di un ipermercato, come durante i bombardamenti. Fare un passo fuori e trovarsi catapultati indietro di settantacinque anni… resisto alla tentazione di scoprirlo, un po’ per rispetto delle regole, un po’ perché sono vigliacca, un po’ perché, infine, ho paura di incontrare altre persone e che sia pericoloso perché i corpi degli altri sono rischiosi. E un po’ perché, se trovassi altri che hanno eluso le regole come me, mi sentirei avvilita. Ci si sente un po’ nudi quando lo specchio si gira verso di noi e, nell’altro, vediamo noi stessi; è come fare una videochiamata e ingigantire lo schermo solo sulla propria immagine mentre il nostro interlocutore viene rimpicciolito. In quel signore attrezzato da trekking, con la sua racchettina, gli abiti tecnici, il cappellino, vedo in qualche modo le mie stesse ideazioni, il surreale convincimento di avere a disposizione il bosco da sola. Non si trovano le mascherine. Alle tre del pomeriggio ho un attacco di invidia, alle tre e mezza di compassione, alle tre e quarantacinque sono esaltata e alle quattro sono diventata glaciale come un microbiologo. È impossibile decifrare cosa faccia il mio umore, l’interpretazione più accettabile è che sia mutevole come il cielo della Scozia. È mutevole il cielo della Scozia? Possiamo confermarlo? Sono di umore umorale. Devo confessare che mi piace l’idea che tutto sia fermo. Devo rompere anche la quarta parete e dire che in effetti sto rimettendo in forma qualcosa che ho scritto un mese fa quando, all’inizio sentivo un piacere strano e inconfessabile di fronte alla paralisi generale, vedendola come una possibilità di riprendere fiato. Ho deciso di inserirmi con questo disturbo dello spazio tempo, un po’ in tema con quello che immaginavo guardando oltre il cancello, oltre la siepe, perché è passato molto, troppo, ed è vero: la mente ha fatto altri percorsi e non tutte le convinzioni corrispondono ancora a quelle di trenta giorni addietro. Eppure per me è rigenerante mantenere la differita e osservare da fuori e da dentro nel passato e nel presente questa incredibile situazione. Torno a un mese fa. Oggi in modo speciale mi sento di avere il Covid. Ho letto che può prendere gli occhi e mi sento strana, ho sonno, sempre di più svogliatezza e pigrizia, sempre fame, poi mi fa male lo stomaco e di nuovo sonnolenza ed emicrania. E non sono la sola. Se avessi il virus, mi dico, me ne dovrei fregare di lavoro e scrittura immediatamente. Mi viene un tuffo al cuore: tra sette o otto giorni potrei finire in rianimazione, mi si gelano le gambe all’idea, è mostruoso, davvero sarebbe il caso di mollare tutto per giocare con mio figlio, passare tutta la giornata con lui, tenermelo accanto, certo, senza contagiarlo, ovviamente. Devo mollare immediatamente la futilità di questo momento, le stupidate che leggo online sui runner che possono correre mentre i vicini delatori fotografano chi è in giro, gente che denuncia altra gente, meschinità, piccoli rapporti di potere, chi è amico di chi, quelli popolari e perché io non lo sono, i sommersi e i salvati. Dovrei muovermi ma passo ore a fissare il vuoto. Magari sono minuti, ma chi può contarli? Tengo traccia di ogni piccolo malessere che percepisco, mi faccio l’anamnesi precisa e dettagliata e mi domando: saranno i primi sintomi? Accendo il cellulare. Digito su Google Coronavirus sintomi, leggo che si muore, fino al 90% in più perché tutti sottovalutano i sintomi gastrointestinali, che potrebbe essere coronavirus se hai la congiuntivite, un po’ di mal d’ossa o i capelli unti. È coronavirus se ti esce un brufolo, se ti prude il piede, se fai uno starnuto. Ho un attacco di panico, non riesco nemmeno a rispondere ai messaggi al telefono, leggo distrattamente che qualcuno mi ha chiesto se da noi ci sono tanti contagi. Non lo so. Spengo il telefono. Ci sono tanti casi? Non lo so. Riaccendo il telefono e mi faccio forza: nelle statistiche che riguardano la montagna i contagi sono più o meno stabili. Anzi, ci sono poco meno di venti casi. Adesso è importante smetterla di rimuginare, mentre mi forzo di combattere questo buco nero che mi risucchia a momenti alterni. Multiformi ondulazioni tra up e down: momenti in cui provo sollievo, lontana dal confronto faticoso e dalla pressione sociale, momenti che mi fanno temere per il mio futuro e per quello di noi tutti. Vorrei arrendermi ed essere solo una madre. Ebbene, anche se si tratta di procrastinazione sulla performance, se dimenticherò tutto ciò che abbiamo detto nel brain storming, se non avrò il minimo interstizio nella società di domani, il mio mal di stomaco mi trascina come una nave, mi porta a pensare che devo prendere i pennelli e dipingere con il mio bambino, oppure giocare ai birilli. Lo faccio immediatamente. Tra sette giorni potrei essere ricoverata, salutarlo e non vederlo mai più. Mi viene così tanta angoscia che nemmeno riesco ad arrestare le lacrime, se dovessi morire vorrei solo che lui non ne soffrisse. Esco dalla porta dello stanzino in lacrime. Lui è lì con il gatto Signor Cesare Marrali, lo abbraccio così forte che quasi lo soffoco. “Mamma hai finito di lavorare?” “Sì, oggi sì.”.
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