ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO QUINDICI
Inizia una nuova settimana, non le ho contate, quante sono? È metà marzo, la quarta settimana che siamo qui. Mi limito ad annotare il fatto per non rischiare di scivolare nello scarico del water mentale del facciamo le previsioni. Mi alzo di scatto. Mi lavo. Ascolto la radio mentre sono in bagno: sono solo dieci minuti di notiziario. È inevitabile: mi preoccupo per la settimana, per il futuro, per la vita, per la morte, per la sofferenza. Strano pensare che sia lunedì. Presa da una specie di obbligo esistenziale consegno il lavoro che mi è stato chiesto: ci sono molte idee, sono ordinate, le ho finite di domenica perché integro usando il weekend le ore che non riesco a finire di fare giorno per giorno. Da una parte non so esattamente che senso abbia continuare a interfacciarmi con gli altri: ho paura di perdere la chiarezza, i perché lo fai, di non riuscire a prevedere lucidamente le direzioni che prenderemo. Ho paura di perdere tempo. E allora mi sembra essenziale vivere il giorno presente. Stare un anno intero in montagna a guardare tutto quello che cambia intorno, non parlo di quando arrivano i saldi o iniziano a vendere le fragole. C’è una nebbiolina splendente che sventola sfumando la neve con le nuvole basse e il cielo. La vista è gratificata dalla profondità di questo spazio, il vero privilegio per un umano. Il resto dei sensi è ubriacato dall’ascolto della temperatura atmosferica, dal nutrimento, dai rapporti tra di noi. Ci alleniamo ad ascoltare l’altro o rassicurarlo che lo stiamo ascoltando. Importantissimo anche l’addestramento a non sentire: mentre scrivo ho come sottofondo qualcuno che suona la tastiera (modalità violino), nella stanza contigua mio padre guarda le video notizie ad alto volume, in lontananza la fioca voce di mia mamma al telefono che raffronta i dati e le terapie con un’amica e collega mentre stira. È un’immagine dissonante: invece di confrontarsi su quale temperatura del ferro sia più adatta a stirare i colletti, si stanno scambiando idee e dati per le terapie antiretrovirali, quali antibiotici e con quale posologia, che livello si sperimentazioni ci siano e che meccanismo di infiammazione si scateni a livello polmonare. Strano, perché la natura dalla finestra si presenta avvolta in un silenzio disumano e, in casa, al contrario, pochi umani ammassati in unico luogo sono in grado di produrre una concitazione acustica inconfondibile. Tipo lo sciacquone chiassoso del water: si finisce inevitabilmente per contare quante volte è stata azionata la potentissima leva dello scarico del bagno. Non provo alcun fastidio, mi diverto a constatare che se per qualcuno non c’è nulla da fare, per noi le giornate sono un tumulto: chiamate imperative, emergenze assolute, attività scolastiche elaborate, abbinare vocali a stampate di schede in power point, elettrodomestici che si rompono, la routine dei riscaldamenti quando scende il freddo, della legna per cucinare, le necessità dei gatti, le necessità di ciascuno. E tutto da dentro, come la confusione mentale di un instabile nevrastenico. È raro che il richiamo arrivi da fuori e se succede è un evento che mette tutti in allarme, come l'elicottero che mi è passato sopra la testa mentre ero nel prato, la voce della signora che abita nella strada di sotto, il suono del vecchio campanello, che fa proprio un isterico driin in stile anni cinquanta, provocando una specie di sbalzo cardiaco che spero non sia capace di assassinare uno dei miei genitori. Si accorre alla porta. Si prende in mano la maniglia, poi ci si ripensa e si mette il guanto e una sciarpa in faccia. Per un attimo penso che sia uno scherzo di mio figlio, tanto mi sono disabituata all’esterno. Anzi, a direi il vero vorrei proprio che fosse uno scherzo del figlio e mettermi a giocare e basta. Caccia al tesoro! Lanci sul letto! Apro, con la faccia della mamma in rimprovero pronta a dire: “Non farmi scendere per niente…” ed era il corriere. Non c’è nemmeno il rischio reale che ci si possa fare una risata per una gaffe, “Oh mi scusi, sa, credevo fosse mio figlio e stavo per sgridarla”. Non incrocio mai il corriere. Chi fa le consegne nelle case ormai non scambia parole: viene a portare la spesa bardato e avvolto nella tuta da lavoro, fugge come un fulmine prima che arrivi l’inquilino, rimette in moto frustando i cavalli. Per qualcuno stiamo trascorrendo Giornate senza senso, come un mare senza vento, parafrasando Guccini. Non lo so. Ancora non mi sento soffocare davvero, come mai? Forse non mi manca tutto della vita di prima, non mi mancano quegli angoli di giornata in cui lo scorrere del tempo era accompagnato da attività che svolgevo per procura, che svolgevo in uno stato di ipnosi, spinta da un andare avanti che non sempre è una scelta. Riesco a ritirarmi per riordinare la lista delle cose da fare e mi fermo. Ma fare cosa e per chi? Mi trovo a guardare indietro con occhio critico le persistenze di vuoto che riempivano il tempo con questioni di nessuna importanza vera, privandomi di secondi, minuti, giornate intere. Facendomi sorgere un’ansia crudele. Risucchiata in una specie di tubo aspirante troppo stretto per poter contenere tutti gli enormi sogni di una che è nata il giorno di Natale. Cosa avrei fatto oggi nel mondo civilizzato pre-virale? Guardo il calendario. Oggi avrei dovuto presentare il romanzo in una scuola di Pavia. Mi dispiace non esserci, era una di quelle attività che mi sembravano andare nella direzione più sintonica con il senso che voglio dare alla vita, lo penso sinceramente, dato che ho passato in rassegna tutte le zone d’ombra. Quanti progetti sparpagliati in ogni campo! Mi vedo in una specie di ideale fotografia, sono impegnata, tengo la barra della vita con due mani e tutti gli sforzi possibili, cercando di andare dritta, ma, infine, mi sembra sempre di stare in mezzo a un mare in tempesta. Crollo. Mi rialzo. Mi sconquasso di domande esistenziali. Devo imbastire meglio la trama del mio futuro, sono come una stilista che fa abiti per millepiedi. Forse devo provare a seguire la corrente? Forse devo assecondare i venti? Forse mi devo intestardire di più? Forse, per il momento, non importa.
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