ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO OTTO
Un ottimo risveglio con il buon caffè di mia mamma è quello che ci vorrebbe; una delle belle novità della convivenza ritrovata! Prima di scendere, di abitudine, è il momento dell’accensione del cellulare, sei secondi dopo aver acceso la luce. Noto con sorpresa che ci sono diverse chiamate perse da un numero che non conosco, un numero che mi ha cercata con insistenza. Ritenendolo un fatto strano, ma gonfia di speranza, faccio l’errore di richiamare subito per capire se per caso si tratta di una succosa notizia di lavoro, un premio letterario, la vetta di una classifica, un ammiratore, una meravigliosa notizia dal mondo esterno. No. È il corriere di una nota ditta di consegne. Deve avere alcuni problemi in questo periodo, come non capirlo, lo sento stressato, accavalla le domande, sta facendo spedizioni in posti dove non era mai stato e neppure sapeva esistessero forme di vita. Non mi ha trovata, non trova casa mia, non ho la cassetta della posta, non sono del luogo, lui non è del posto, non ha mai sentito parlare della mia via. (Per inciso, il poveretto ha ragione, in effetti la strada è asfaltata da pochi anni, prima era di sassi.) Mi fa capire che sta tornando indietro. Non sono del luogo, è vero, sono di città, in città e in provincia sta dilagando questo morbo terribilmente appiccicoso ma, anche se laggiù è durissima, noi qui siamo sempre in Lombardia: non possiamo spostarci da casa! I miei pacchi resteranno in giacenza in una città a un’ora e mezza da qui che non posso raggiungere perché qui è zona rossa. Io provo sempre un senso di colpa gigantesco con le forze dell’ordine, mi sembra sempre di aver fatto qualcosa di male e che mi scopriranno, inizierei a impappinarmi e a balbettare. Sono tre anni che sto studiando Kafka e so cosa succede nel Processo dalla prima all’ultima riga; io mi comporterei esattamente come lui, anzi, peggio, mi sento già dire: “Vado a recuperare dei pacchi postali che il corriere, dato che non trovava la strada di casa, dato che è una strada nuova, dato che prima era inesistente, dato che…” Non può funzionare: ho già preso una multa al secondo “dato che”. Mi sono pugnalata da sola senza lasciar neanche il tempo alla polizia di dirmi se ho torto o ragione. Non posso andare alla sede del corriere. Mi sale la disperazione. Ci sono momenti in cui bisogna essere reattivi, momenti come questi, io e il corriere riusciamo a raggiungere un accordo: gli invio la mia posizione con Google Maps mettendomi davanti alla cancellata. Sono scesa in pigiama e pantofole, sotto la neve, i piedi che affondano. La posizione corrisponde all’indirizzo che ho scritto sul sito, ma adesso è corredata di numerini, che saranno, immagino, le coordinate GPS. Il mondo, ora, sa dove mi trovo: ho attivato il localizzatore, ho rinunciato alla privacy, un satellite mi ha tracciata e infilzata dalla punta del cranio alla terra su cui cammino, trasmettendo l’esatto numero di casella della scacchiera del mondo su cui sono poggiate le mie fradice babbucce di pelo, conquistate dal nevischio. Non mi tingo di nero i capelli (solo di blu), ma dall’alto, se avessi il problema della ricrescita che lamentano alcune amiche in questo periodo, magari mi fotograferebbero il grigiore avanzato e io ne sarei imbarazzata. Magari. Non so perché lo penso, mentre il vero problema è che sto prendendo la polmonite anche senza bisogno del virus. Il corriere adesso mi risponde su whatsapp, anche lui prova la stessa rivelazione astronomica che sto provando io, siamo due persone ora, due contatti in confidenza al di fuori dei nostri ruoli di Ricevente del pacco e Portatore di pacchi: appare la foto di un signore gentile sorridente appoggiato alla parete esterna di una casa color crema. Non è più anonimo, anche se sul mio telefono è salvato come CORRIERE (nome ditta), e non lo sono nemmeno io. Ora mi scrive addirittura messaggi personali: scrive che non vede il mio numero civico. Glielo fotografo, con tanto di neve sopra e intorno, glielo invio. Mi richiama, è agitato perché la strada gli sparisce davanti al camion, naturale, ha ragione, non è giornata: è che c’è la neve. Concordiamo che non posso aspettare fuori all’aperto nella neve come Jack Torrance nel labirinto dell’hotel, se no mi ritrova con il cellulare in mano, ibernata. Verrà un altro giorno. Formulo un piano: nella prossima spedizione ci sarà anche una cassetta della posta con porta pacchi a prova di distanziamento preventivo, così il corriere potrà metterci i pacchetti senza avere contatti fisici con me. Chissà se ha provato lo stesso terrore che ho provato io, come una specie di collisione tra due meteoriti nello spazio. Non so se è una soluzione ragionevole, ma per David Lynch non farebbe una piega e io, sveglia da pochi minuti, in stato confusionale, davanti a un cancello innevato con un pigiama di quando avevo 16 anni in pile blu con raffigurazioni silvestri, sono riuscita a raccogliere solo questa quantità di sagacia. Sono sicura di non aver reso l’idea, ma io, prima di questo covid, sono sempre stata una che associava l’isolarsi in montagna a una specie di desiderio vitale. Salire fino ad arrivare in cima, essere fortificati, aprire la finestra a torso nudo, le braccia appoggiate agli stipiti e guardare la cresta e l’immenso spazio che ci separa, fino a dimenticarsi di tutte le miserie ombelicali che ci affliggono. Invece mi trovo conciata che neanche il peggior stereotipo di sciatteria, allarmata come una marmotta per un corriere che mi sfugge via con un pacchetto che neanche mi ricordo… ma cosa conteneva? Cosa di così essenziale conteneva? Torno a casa muovendomi come una semicongelata, con la stessa malagrazia di una pigna che precipita sul vialetto. Raggiungo la famiglia radunata per la colazione e prendo il pentolino dell’acqua bollente del the direttamente dalla stufa a legna a trecento gradi senza presina. Con un’ustione di terzo grado che nascondo con leggiadria, faccio colazione con rinnovata disinvoltura. Brucia mostruosamente ed è la destra. Con la sinistra rovescio metà dei cereali sulla tovaglia, lo yogurt mi si sbrodola sulla maglia e mi spalmo del miele sulla confezione di pancarré ancora sigillata dalla plastica. Io così: se mi sveglio male sono spacciata. Sono spacciati tutti. Attacco briga a caso con il marito, sono intorto marcio perché ho consumato tutti i giga della connessione guardandomi Il racconto dell’ancella. Oggi l’imperativo categorico è scrivere il mio romanzo: annuncio solennemente che mi chiuderò in una stanza a chiave e non dovrò essere disturbata per ore. Esco che sembro la signorina Rottermeier nel pieno dei suoi giorni ruggenti. Prima, però, impugno una patata sbucciata trovata in dispensa per calmare i dolori dell’ustione, l’unico rimedio certificato e di sicuro successo. Con la patata tra le mani mi chiudo a chiave nello stanzino piccolo e buio dove di solito ci sono le valige. C’è un letto e una scrivania e lo spazio per stare fermi incastrati a guardare mezzo pino dalla finestrella e pensare alla morte. Sono sicura che ce la farò, anche senza stufa a olio, con il freddo che mi prende i piedi e il palmo della mano che si spella. La sofferenza è un motore dell’arte, è immenso sentire quanta contraddizione ci possa essere nell'intercapedine tra il brivido e l’ustione, tra la depressione e l’ipomania. Sento già l’ispirazione cavalcarmi la mente e il pensiero spostarsi più in alto, scansando comodi rifugi e proiettandosi verso il senso dell’umanità, ovvero: perché mi sono alzata dal letto? Sul serio, a quasi quarant’anni, qual è il mio scopo in questo mondo? Forse ho la febbre. Fisso il computer, ma niente: ascolto solo i battibecchi. Ci si confronta su quanta glicerina debba essere diluita nell’etanolo procurato di straforo dalla farmacista del paese per riuscire a produrre un disinfettante che non corroda le mani. Ma chi se ne frega, cosa vuoi che sia avere la pelle un po’ irruvidita: io alla mia mano destra ci ho già rinunciato! C’è un virus. Nevica. Le mascherine sono terminate. Il cellulare ronza come impazzito per le notifiche. Il figlio con la sua innata ironia sta di nuovo imitando il notiziario e parla del presidente del consiglio che lancia la diretta. Lo ascolterei per ore, è meraviglioso. io guardo con insistenza una stanza a caso e considero tutto quello che diceva Virginia Woolf riguardo ad avere una stanza tutta per sé. Infine, con un’esclamazione chiassosa, sento dire che si è fulminata la luce al neon della cucina. I negozi sono chiusi. Non abbiamo candele. Resteremo al buio. E poi? Non avevano anche liberato gli orsi un anno fa? Sam Raimi avrà scritto La casa in una situazione di questo tipo? Come gli sarà venuta in mente la strega tumefatta che sbraita dalla cantina? Aveva anche lei una botola tutta per sé? Da qui in poi arrivare a sera è una passeggiata: scrivo una riga ogni due ore ed è brutta, passo cinquantacinque minuti per volta ad avere l’ansia perché ho scritto solo una riga brutta, penso ossessivamente a come cuocerò la patata che ho usato per calmare la scottatura. Mi accorgo di essere congelata. Annuncio solennemente che ho deciso di piantare lì a riga quattro per accendere il caminetto. Il figlio è felicissimo che io voglia fare con lui un’attività per bambini. Raggruppiamo tutto il necessario: fiammiferi, diavolina, segatura intrisa di kerosene, pigne secche, pezzi di cassette della frutta, legnetti e legna di pino piena di schegge, un residuato bellico inesploso e dei proiettili del quindici-diciotto. Esagero? Non voglio rischiare di perder tempo, la fiammata deve salire potente e in fretta. E mentre cerco di capire se faccio prima a fare una bomba di carta di giornale con la segatura oppure se ci conviene partire da diavolina infuocata con pigne secche a presa rapida, mi accosto al vuoto del camino e sento una voce che recita il Credo. Io e il pargolo ci guardiamo. Infilo la testa nella fornace (che, ricordo, è pronta a incendiarsi alla prima scintilla). Ed è così che vengo naturalmente a scoprire che, per un sofisticato sistema di areazioni, siamo collegati con la Chiesa o con qualche altra casa di gente che prega. Non è follia: avviso tutta la famiglia e tutti vogliono accertarsene, dapprima sono riluttanti, poi mettono tutti la testa nel caminetto: è vero! Si sentono le voci! Si prega! Intanto nel braciere è già posizionata la palla di kerosene e a mezzo metro dalla bocca del camino c’è un piccoletto che sta seriamente esercitandosi ad appiccare la scintilla a dei fiammiferi. È mio figlio, che sto trascurando subito dopo avergli messo in mano la benzina. Chi potremmo carbonizzare per primo tra noi cinque? La sera scende così, senza vittime, ma con grandissime riflessioni sul senso dell’umanità ovvero: perché mi sono alzata dal letto?
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