Sto esagerando. Se tutti i semi dovessero germogliare insieme mi servirebbero ettari di terra concimata, campi a perdita d'occhio, trattori, motozappe, un camion di concime e due braccianti. Io, incurante, faccio cassettine e metto semi, senza soluzione di continuità, sono inarrestabile, sono divenuta bulimica. Voglio tutte le piante, voglio anche l’ananas del monte! Schiumo in uno strano delirio di torba e sementi. Per fortuna arriva un camion enorme che quasi mi investe. Sono accucciata in terra a infilare con dito i semi nel buco della torba completamente in tranche e non credo mi abbia vista mentre fa manovra.
E inneschiamo di nuovo la domanda più gettonata dell’epoca pandemica: come la classifichiamo una vittima schiacciata dal camion che fa manovra nel giardino mente infila dita nella torba? È il fornitore del combustibile per la stufa. Ci passiamo il carburante di mano in mano, danzando il Valzer: sono taniche da 25 litri in una grossolana plasticaccia rossa. L’uomo che le porta non è di molte parole, ha un camion ricolmo di taniche rosse, le stesse, come dieci anni prima e prima ancora, forse quando ero piccola lo stesso uomo del Monte, veniva a portare taniche piene. Non ha età. Il camion è lo stesso. È cambiato qualcosa negli anni, forse, nel tipo di carburante che si usa per scaldare, è cambiato l’odore, prima l’aria assumeva un che di pungente e ubriacante, adesso l’aria attorno alla stufa è meno tubo di scappamento e sa più di stalla. E così noi, i nostri vestiti e i nostri pensieri. Ma non è cambiata la tanica, in plastica, tutta rigata, il tappo nero. L’uomo del carburante porta dei guanti spessi, è vestito con dei jeans chiari e una giacca albicocca, un po’ sporca deliziosamente vintage. Non indossa la mascherina. Forse sta pensando che nulla deve cambiare, altrimenti il fuoco smetterà di scaldare e l’acqua di dissetarci. Sa che non siamo di qui, come molte persone che abitano nelle rare case dei dintorni. Per fortuna mia mamma ha allacciato dei rapporti negli anni, altrimenti chissà cosa succederebbe se avessimo bisogno. Nessuno è un’isola, dice anche una persona che conosco. Nessuno è un’isola, ha ripetuto ieri sera mio marito. Lo penso anche io. Però gli scrittori ne hanno inventate tante di isole, circondate dai mari e dagli oceani, hanno sognato come Defoe, una vita tutt’altro che contemplativa ma carica d’avventura, l’isola che non c’è così agitata tra infanzia perduta, ombre, rettili e pirati. E Stevenson non aveva forse dipinto la mappa dell’isola del tesoro sotto al tavolo per far giocare suo nipote e intanto scrivere il suo romanzo? io sono su questa isola deserta che ha sulla cima una montagna altissima a picco e sono sulla punta, completamente ipnotizzata da questo sogno. Nessuno è un’isola, ma tutti possiamo crearcela intorno e fantasticare. Soprattutto oggi, dato che le notizie al telegiornale vanno peggiorando. Sono sempre sconfortanti e sono capaci di focalizzarsi ogni giorno, come se fossero d’accordo, a reti unificate e pareri allineati, su un unico argomento di tendenza. Di tendenza terrificante. L’Ibuprofene. Oggi c’è l’Ibuprofene. Sembra che sia un acceleratore del virus. Lo ripetono alla mattina a pranzo e a cena. Non so se attaccarmi alla tanica di benzina. Vado a letto, tanto sono finita. Io ne ho mangiato così tanto di Ibuprofene che avrei potuto farci un risotto con le pillole. È anche per stanotte si condivide il letto con il nostro amico panico.
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