ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO SEDICI
C’è un gran sole e non nascondo di aver provato un piacere immenso a montare una serra di plastica con mio figlio: ricordo che il nonno la faceva per salvare i germogli dalle gelate improvvise. Non so niente, ma vado a memoria e ritrovo tutto ciò che serve nelle ragnatele della legnaia. È come montare una tenda, ma senza istruzioni, senza camping, al freddo e senza chitarra. Per darmi un po’ di atmosfera canto E un altro giorno è andato di Guccini, spazzando via con il piede dei ragni morti e fingendo di non sentire mio figlio che commenta: “Canta malissimo…”, rivolgendo sottovoce la critica verso le mie abilità canore al Signor Cesare Marrali. Il gatto felice al massimo grado per un motivo che ci sarà ignoto per sempre, si scaglia a capofitto nel cespuglio di lavanda, con un salto felinamente calcolato alla massima precisione. Il punto è come mettere insieme i resti della struttura ideata forse negli anni Ottanta: è una lotta con i vecchi paletti per tenere il telo sollevato da terra, poi il grande foglio di plastica pesante deve essere ancorato al suolo tramite dei pietroni scovati qua e là nel prato. Semplice, avventuroso e molto pre-Quechua. Ci sono dei grossi chiodi arrugginiti da piantare dentro con la mazza. Ma quanto è bella la mazza? Che altro non è che un enorme martellone in metallo pesante, che maneggio cantando: Negli angoli di casa cerchi il mondo/nei libri e nei poeti cerchi te, in perfetto stile quarantena continuando sulla stessa canzoncina in loop. Mi sento potente come il nano del Signore degli Anelli. Avanza un sacco di materiale da giardinaggio da quando qui era in piena attività mio nonno e la sua organizzazione precisa per far andare la casa con il ritmo delle stagioni. Qualcosa che oggi è stato abbandonato, come la vecchia sega elettrica circolare che prendo in mano per un attimo, solo per sentirmi un po’ Faccia di Cuoio della saga Non aprite quella porta. Mi vedo mentre roteo la sega nel tramonto insanguinato e mi spavento un po’. La rimetto al suo posto con una scrollata di spalle. Ora che so dov’è, prima o poi mi sveglierò alle sei del mattino attivandola e aggirandomi per casa con uno o due metri di prolunga elettrica, chiameranno il Trattamento Sanitario Obbligatorio e mi cattureranno staccandomi la spina della sega e dicendomi: “Signora, ma non si vergogna? Venga che le diamo del Valium”, “Signora, la smetta di cantare Guccini agitando un’arma, che tanto guardi, il tempo andato non ritornerà!”. Così, mestamente, mi rimetteranno sul divano a rilassarmi guardando in televisione i grafici dell’avanzamento della pandemia. Non ho nemmeno la stoffa per essere una che viene colta da un serio raptus omicida. Intanto lascio perdere la sega circolare e provo a vedere se riesco a diventare una montanara, facendo di necessità virtù. Mio figlio mi ricorda le favole di Esopo che gli leggevo quando era più piccolo: a lui piaceva “Topo di città e topo di campagna”; ecco: per ora sono solo la stravagante copia di una boscaiola (per altro del tutto deludente), sotto la quale si nasconde una topa di città col carnet della metropolitana in tasca. Io ci provo, mi accuccio a terra, in punta di piedi, poggiando i glutei sui talloni con un risparmio di spostamenti quasi altezzoso: se non arrivo alla paletta, scavo con le mani, se la busta non si apre e necessita delle forbici che sono in cucina, la strappo con i premolari. Cataloghiamo vasetto, semino e piantine di vario tipo. Avevo portato con me prima di partire delle bustine di sementi stravaganti: tipo la carota viola, la zucchina gialla, le rape blu, la patata dolce, quella arrabbiata, il sedano ficcanaso, la rucola incallita da fare invidia all’Esselunga e al suo copywriter. Mio padre commenta con mia madre che magari avessi piantato verdure normali! Io rispondo per le rime, sfoggiando con orgoglio la tanto declamata frase sulla bellezza della particolarità, l’orgoglio di essere diversi e la noia dell’omologazione; che se siamo ridotti in questo modo è solo colpa del mondo globalizzato. Poi, mentre nessuno mi ascolta ormai più, che non ho nessuna qualificazione scientifica per poter intervenire in ateneo-casa-montagna, apro una digressione sulla diversificazione del grano dall’antichità a oggi e argomento pedantemente, producendo il mio tipico borbottio di sottofondo in segno di protesta. Mi balena un dubbio importante: ma, in effetti, non dovrei forse ordinare online verdure normali e già piantate, semplicemente da mettere al sole e innaffiare ogni tanto? Ecco che ritorna in me la topa di città che vorrebbe ordinare su Amazon. E mentre squadro con fastidio l’abbandono che ho intorno, le sementi dai nomi impronunciabili, il disordine sgraziato di buste di plastica nell’erba, i segni del mio fallimento come agricoltore, il colorito di mio figlio che felicemente soffia nelle bolle di sapone e che è già annoiato dalla piantagione di rarissimi ortaggi arcobaleno che faranno indubbiamente schifo, mi coglie l’infinito. Poi succedono due cose irreali: mentre sto zappando con lo stesso molle movimento di polso di una che tira i dadi sul tavolo del casinò, sento ronzare un moscone terrificante e su di me incombe l’ombra oscura di un mostro. Alzo timorosa lo sguardo. È un drone. Se non fosse stato annunciato al telegiornale, avrei pensato a un giocattolo, alle riprese della webcam del centro meteorologico, a un elicottero in miniatura, a uno di quei giocattoli telecomandati dai bambini dei vicini che viene a rovinare la mia privacy. No, è un drone della finanza venuto a controllare se anche qui e nel bosco ci comportiamo bene. Ho l’impulso superficiale e paleolitico di impugnare fionda e sasso, poi penso ai due poliziotti soli qui in montagna: magari sono stati mandati qui, lontani dalle famiglie. Magari hanno pescato totani da qualche parte fino a ieri, abituati alla calorosa estroversione del Sud e invece stanno qui, isolati, tristi, a gelare con noi, che invece abbiamo scelto la casa nel bosco proprio per introversione patologica. Forse, uno dei due poliziotti, nostalgico, stanco della solitudine, sta un po’ divertendosi a sbirciare cosa facciamo qui in alto, di fianco al crocicchio che fa partire i sentieri. Ha ricevuto fresco fresco dalla Protezione Civile questo drone, questo elicottero-baby munito di telecamera che gli mostra la libertà e il verde degli abeti. Che poi il verde dei prati è di centinaia di gradazioni diverse in base all’altitudine, all’umidità, alla luce che si rifrange. L’intrepido finanziere si sarà goduto l’esperienza di avere una veduta panoramica sui prati, i pendii opacizzati dai rovi, le macchie boschive illuminate dagli aghi splendenti dei Deodara. Poi avrà pensato di passare a trovarmi. Non voleva mettermi in soggezione, credo. Certo, da adesso che gira il drone forse dovrò pensare di smetterla di fare il saluto alla montagna sporgendomi a torso nudo dalla finestra. Pazienza. Già non avevo più l’età. Non credo che il signor drone possa sparare anche pallini su me o sul Signor Cesare Marrali per abbattere i fuggitivi; si annoiava e si è soltanto fatto un giro fino a su, per rifarsi gli occhi con il sentiero che via via si fa sporadicamente innevato. E in effetti è meraviglioso. Da piccola mi chiedevo, ingenuamente, come fosse vivere qui, andare a scuola qui, restare sempre col prato sotto i piedi e il busto proteso a guardar la valle. Venivamo solo a trovare la nonna d’estate. Anche da ragazza mi turbava l’idea che non si potesse scegliere di abitare qui, dimenticare se stessi e la pressione sociale, vaporizzandosi nel panorama. Mentre sono immersa nei pensieri, dopo che il drone se ne è andato da un pezzo, sento una macchina. Oggi che succede, mi dico, rischiando di tirarmi la mazza sulla rotula. L’auto, con le sue quattro ruote motrici, frena fragorosamente accanto al nostro cancello: più in alto non si può andare senza rovinare le fiancate con i rovi. Una signora abbassa un vecchio finestrino a manovella cigolante che è ancora più sinistro del drone-macchina e si sporge a urlare dal finestrino: “Nonno! Allora! Tredici messaggi e non rispondi? Ti continuo a chiamare! “ Il nonno replica dalla finestra, affabile: “Madonna t***a, porco d*o!”. Non ha altro da dire La signora non sembra minimamente alterarsi di fronte alle potenti bestemmie del nonno, che naturalmente echeggiano nella valle: “Allora rispondi, no? Se stai bene…”, lo rimprovera. Il nonno non dice nulla, la signora neanche. Si limita a riavviare il motore, percorrere qualche metro, fermarsi e affacciarsi di nuovo per commentare con la vicina che abita nella villetta di sotto: “Sì, è il nonno. No, non vedo miglioramenti”. Dapprima penso si riferisca alla malattia, poi realizzo che forse sta parlando del carattere del nonno, un po’ suscettibile. A quanto pare, non è migliorato con la quarantena, e meno male che dovremmo tutti trovare una nuova spiritualità. Comunque, a suo modo, il nonno l’ha trovata una solida spiritualità, l’ha condivisa con tutta la vallata e dimostra di stare bene. E, per un attimo, tutti ci uniamo a lui solennemente.
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