ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO NOVE
È ufficialmente pandemia. Non c’è niente da ridere: noi qui avevamo sottovalutato tutto, le informazioni erano troppo sconnesse, comincio a ricostruire chi ho incontrato l’ultima volta, a chi ho avvicinato la faccia, in quali bar ho preso il caffè. Non mi viene in mente nessuno, per fortuna (in questo caso) sono piuttosto antisociale. Dalla presentazione del libro sono passati più di quattordici giorni e comunque anche in quella situazione ho mantenuto la mia distanza confort e niente effusioni ravvicinate. È paura lo stesso, anche se per temperamento tengo normalmente una distanza di due metri da chiunque, mi ritrovo a immaginare scenari catastrofici, anche grazie ai servizi che scorrono in televisione. Ci sono delatori da tutte le parti, si va in cerca dell’infame italiano untore e viziato. Si mette alla berlina un presunto tipo di italiano sconsiderato che ha messo a repentaglio la sanità nazionale, si pescano colpevoli da ogni parte, così possiamo distogliere l’attenzione dalla vera infamia: finanziare la sanità privata e depauperare gli ospedali pubblici. Un tempo erano il fiore all’occhiello della nostra regione. La seconda tragedia politica è che ci si sta organizzando per trovare il modo di recuperare i libri dei bambini rimasti a prender polvere nella scuola ora vuota. Devo ammetterlo, si sente un che di definitivo nel ritiro di tutto il materiale scolastico, un presentimento di fine, di chiusura drastica che nessuna rassicurazione può mitigare. Immagino la scuola tra un numero imprecisato di anni, la classe di mio figlio è ancora lì a prender polvere con i suoi quaderni sullo scaffale, il colore delle copertine mangiato dal tempo, le pagine rinsecchite, l’incarnazione del peggior immaginario post apocalittico: mi vengono le lacrime agli occhi. Ha qualcosa di simile al Titanic, sommerso con i suoi tesori e le cozze a riprodursi in migliaia di neri bivalvi tra una forchetta d’argento e una collana. Forse però le cozze non abitano gli abissi e io devo farmi forza e smettere di perdermi in fantasie devastanti. E noi siamo fuori da Milano. La coraggiosa mamma di una compagna di mio figlio è disposta a prendere anche i nostri libri. Sono commossa e felice: la calligrafia del mio bambino e i suoi disegni non prenderanno la polvere dei secoli, non vivranno l’abbandono, non si inabisseranno e nessuno ripescherà tra molto tempo qualcosa di suo per appropriarsene. E non ci cresceranno sopra le cozze. Inizia oggi il calvario della seria iscrizione ai servizi di consegna a domicilio, della scelta di quello migliore, della disputa tra me e mio marito tra chi deve iscrivere chi, con quali dati, con che carta di credito e quanto spendere, come dare le disposizioni e quando, spedizione rapida? Andiamo in macchina? Moto? Vettura a cavalli? Drone? Ma a che servono i libri di scuola se sta già leggendo Il richiamo della foresta? A che serve la lezione di scienze sulle radici se ieri abbiamo piantato carote, erbette cavolini, pomodori e zucchine gialle? Eppure ho l’idea che dobbiamo mantenerlo conformato: se ci prodighiamo nella didattica alternativa fai da te, ci trasformiamo nella famiglia anarchica di 'Capitan Fantastic' (senza Viggo Mortensen, però!). Naturalmente parliamo per un tempo infinito di niente, trovare la soluzione migliore è divenuta più una sfida personale, una competizione di genere che ci vede come nemici instancabili. Non combiniamo nulla per ore ma decidiamo di andare all’aperto. Lasciamo i miei genitori in casa che stanno smontando il neon della cucina per vedere se riescono a fulminarsi e rinfocolare la diatriba di questi giorni: “Sono morti per coronavirus, di coronavirus, a causa del coronavirus? A causa di eventi correlati al coronavirus? Come li conteggiamo due anziani fulminati mentre cambiano un neon con una scala traballante?”. Dopo aver scelto e pagato un corriere qualunque, forse il peggiore e il meno conveniente giusto per non portarci davvero la diatriba avanti fino a sera, alla fine andiamo a fare la tanto agognata passeggiata sul sentiero sopra casa. Nutro la segreta speranza di riuscire a scovare un angolo di limpida pacificazione con la natura, una tregua dall’incessante e ripetuta percezione della catastrofe mondiale. Vorrei un po’ di pausa dalla comunicazione reiterata della nostra morte certa e vorrei trovarla mettendomi in cammino verso l’alto. Non dobbiamo salire molto, già dopo la prima curva c’è un posto che amo tantissimo, un panorama magnifico, capace di dissipare qualunque pensiero sgradevole. “Venite a vedere che panorama!” esclamo con gioia in piedi sulla cima di ciò che rimane di una chiesa rotta e sconsacrata. Mentre guardo le vette innevate, i ghiacciai che resistono ancora lassù, scontrandosi con il cielo assolato, tutta la catena montuosa stagliata davanti ai miei occhi come un ventaglio dalle punte aguzze, mentre mi inondo e divoro l’immaterialità di questo spazio, mio figlio ha preso in mano (con i guanti) la zampa di un caprone. Dallo stinco allo zoccolo nero. Ripeto: mio figlio ha in mano una zampa pelosa staccata di netto con tutto il suo zoccolo da un caprone. Una zampa grossa, una zampa che pare viva e che mio figlio agita in aria, manco fosse una sequenza di un film dell’orrore o una ricostruzione storica del Malleus Maleficarum. Cosa ci riserverà questo straordinario martedì dopo i resti di qualche rito satanico? Ipotizzo che siamo inciampati nel bivacco di un lupo. Mio marito butta lì che magari, invece, è stato lasciato da un cacciatore di frodo oppure da un pastore autoctono che ha litigato con una capra capricciosa e le ha tranciato una zampa anteriore. E se fosse ciò che resta di un rito satanico? E perché invocare Satana, poi,? C’è già il virus, non state a scomodare il demonio. Ma perché devo pensare male, magari è più semplice: forse la capra si è tolta una zampa perché le dava fastidio, come una scarpa stretta. Magari trotterellando non si è accorta di aver perso un pezzo. Sì. È la versione migliore. Guardo mio figlio, gli faccio gettare l’arto animale a terra, confisco i guanti che più tardi brucerò nel camino, lo spalmo di Amuchina che non si sa mai e decido di spiegare così la stramberia al bambino: “Il caprone stava brucando l’erbetta quando ha sentito dei rumori e, nell’andarsene via in tutta fretta dalla sommità della chiesa rotta, ha dimenticato una delle quattro zampe. Non preoccuparti, ne ha altre tre. Vedrai che è felice.” E anche noi lo siamo. A me, per oggi, sembra sufficiente.
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