ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO DODICI
È metà marzo, all’incirca. Mi sveglio senza alcun pensiero preciso, dopo un sonno profondissimo e ristoratore ho una gran voglia di una bella spremuta d’arancia; la montagna mi accarezza i sogni, il rumore della stufa a pellet è in sintonia con il mio respiro, scarica legnetti tamburellanti, li incendia, la fiamma emana un tono di luce aranciato che sembra di stare tra gli Hare Krishna, il calore della stufa asciuga l’aria ma avvolge tiepidamente. Con un gesto automatico afferro a tentoni il telefono dal comodino, premo sull’applicazione gialla e ascolto Radio Pop, nel frattempo leggo da dubbi siti notizie che anticipano futuri scenari di selezioni delle merci e blocchi alle vendite di beni superflui di ogni tipo. Sono ancora tranquilla. Penso serafica che riuscirò a fare a meno di ordinare quella resina sintetica che pubblicizzano sui social e che viene usata per fossilizzare fiori trasformandoli in ciondoli trasparenti. Riuscirò anche a privarmi delle gomme da masticare, sorrido beffarda, sono perfettamente in equilibrio: non ho urgenza di impossessarmi di un nuovo paio di ciabatte. Tutto a posto per i beni superflui. Ma… e il settore sali e tabacchi? Mi levo le cuffiette subitaneamente, intercettata da un atroce presentimento: potrebbero finire le sigarette, potrebbero finire le sigarette, ed è arrivato il momento di rivelare che sono una fumatrice notturna maledetta e incognita: quando va via il sole io mi trasformo in un vampiro e aspiro. Non accetto che mi si dica che la quarantena sarà una buona occasione per smettere di fumare, ho trattenuto aggressioni fisiche nei confronti di chi ha provato a dirmelo in questi giorni. Sono già passata alle Iqos, ovvero la cura del tabacco mentolato cotto al vapore, come le verdurine Bonduelle: è il massimo che posso fare in quanto al preservare la mia salute. Secondo una convinzione del tutto paracula che mi sono inventata, la Eets al mentolo può sanare il polmone disinfettandolo dal virus; la mia idea si basa su una precaria deduzione: uno dei pazienti più conciati di questo periodo non era forse un salutista allenato? L’unico contagiato di cui ho conoscenza è uno sportivo con tendenze vegetariane sui sessant’anni. Ho bella e pronta la mia teoria da tossica, concepita a uso e consumo della mia dipendenza fatta lì per lì su due casi e senza approfondimenti: fumare mi tutelerà. Proseguo le letture e mi arresto alcune manciate di minuti su diversi articoli, prestando attenzione ai contenuti che mi saettano davanti agli occhi. Sembra che io non sia l’unica a costruire teorie utilitaristiche basate su pochi dati, guardando ancora in rete leggo molte elaborazioni speculative raccapriccianti, mi preoccupa la miriade di teorie costruite su niente, simili alla mia ma molto più dannose: leggo di alcuni che sono contenti di questo sterminio per via della sovrappopolazione, sono contenti perché ci liberiamo degli anziani, sfiorano degli orridi di pensiero molto vicini all’eugenetica, giustificano la mortalità come una specie di colpa di tutti quegli individui poco attenti, poco furbi, poco cauti o dotati di un fisico debole, affetti da altre complicazioni o vizi malsani. Devo fumare, altrimenti mi spavento. Ma quanto avremo da fare quando rientreremo al lavoro? Dovrò recuperare l’allenamento alle sofferenze della dialettica per far fronte ai testa a testa che inevitabilmente capiteranno anche con questo genere di arguti testardi capaci di vincere un dibattito con il puro approccio competitivo. Magari hanno letto una semplificazione dei trentasei approcci di Schopenhauer per aver sempre ragione o le cronache delle gare di cocciutaggine di Sartre riportate dalla de Beauvoir. Sono stata già traumatizzata a settembre con il ritorno alla realtà dopo la pausa estiva, uscendo pigramente da quel rilassante tempo fermo estivo utile a prendere una giusta distanza da tutte le cose, adesso viro pericolosamente verso una specie di autoisolamento che rifiuta o sfugge gli inviti in videochat. Penso. Rimugino. Intanto, bisogna dire che sono ancora a letto, le coperte sulla testa, più o meno paralizzata, che mio figlio si è piazzato accanto a me abbracciandomi e respirando piano ed è meraviglioso, che la casa ha cominciato ad accendersi e prepararsi alla colazione. Stamattina ho bisogno di andare a fondo, leggere opinioni, cercare un’ancora di salvezza: mi distacco un po’ dai post generati dalla voce del popolo, mi accosto a cercare pareri di intellettuali e scrittori importanti. Accusano l’umanità tutta, che si arrabatta all’inseguimento di una vita di consumi ma non ha coscienza della propria presenza reale nel mondo. Sì. Sembriamo non avere contatti con le cose. Le cose, invece, ci toccano, ci stravolgono, potrebbero rovesciarci e intubarci, le cose. Adesso ne abbiamo contezza. L’abbiamo toccato con mano. Sarà del tutto vero però insistere sul fatto che viviamo increduli di avere una diretta responsabilità sulle sorti di noi stessi e del pianeta? Che siamo rane bollite? E, se fosse vero, era davvero necessario questo virus a farci pensare che lavarsi le mani con il sapone dopo aver pisciato è buona abitudine a prescindere dal coronavirus? Cambieremo? Cosa ci succederà, poi? Riusciremo a mettere in piedi la Ricostruzione, la stessa che stavo portando avanti come reading prima che tutto questo accadesse? Questi pensieri li ho tutti insieme, al risveglio, congiuntamente al timore-panico che chiudano i tabaccai, come quando da piccola tentavo di scrivere le prime poesie con la Olivetti del nonno, avevo tante idee e schiacciavo cinque tasti in un colpo solo. Mi sembra che tutti abbiano un po’ reazioni simili alle mie: all’allarme rispondono precipitandosi in modo allarmato e scomposto. Come per la faccenda della vitamina C. ecco perché ho aperto gli occhi desiderando aranciata. In vendita non ci sono più nemmeno gli spremiagrumi, figurarsi le più note marche di pasticche vitaminiche: è come se tutti si fossero destati con l’impulso di riprendere la vecchia Olivetti del loro nonno e si fossero incastrati contro la striscia di carta carbone, insieme ai tasti, premendo dieci, sette, cinque lettere contemporaneamente. La vendetta si è scatenata, dopo una lunga repressione, il giudizio universale è comparso giocando un po’ a mettere sottosopra i nostri formicai. Se penso alle memorie che ho ascoltato nelle lunghe domeniche a pranzo dai nonni, da dopo la guerra non era mai capitato nulla di così estremo… Il pianeta, nel suo agire incontrollabile, ci stava a guardare, trattenendo un intenso desiderio di rivalsa contro l’uomo. Ci ricorda che non è un concetto così utopistico quello di essere potenzialmente tutti sterminabili. Fino all’estinzione completa. E non è un film o un libro. Succede. E con questo pensiero confuso, tipico sintomo di astinenza da nicotina, decido che oggi sarò insieme alla massa (a debita distanza) e correrò a fare incetta di Eets blu e di questa introvabile vitamina C che la fantomatica dottoressa Cesira consiglia vivamente attraverso il vocale arrivato da più parti tra ieri notte e stamattina. Sarà una bufala, ma io, come tutti gli altri, disciplinata e priva di adeguati mezzi di difesa intellettuali in campo medico, mi pongo come obiettivo della giornata la scorta di arance e tabacchi. Appurato attraverso una telefonata al “mercatone” che le arance, bene rarissimo solo per la giornata di oggi, verranno spedite dalla consegna a domicilio, vengo riportata con violenza al pensiero catastrofico primario. E i tabaccai le faranno le consegne a domicilio? No che non le faranno: devo impugnare il coraggio a quattro mani e andare a prendere le sigarette. Mi serve una mascherina. Non me la sento di rubare per le sigarette l’unica che mia mamma ha di scorta dal kit ospedaliero. Vago per la casa ancora addormentata ma agitata, mi sento come Robinson Crusoe naufrago, affamato, in cerca di una noce di cocco. Devo fumare ma proteggermi dalle microscopiche particelle infette indesiderate per poter così aspirare volontariamente le particelle tossiche che mi sono scelta da sola? Guardo nell’armadio dei prodotti sanitari senza trovare niente di utile, però… qualcosa ci sarebbe: ci sono i Lines Seta Ultra a quattro strati, ma certo! Probabilmente sto delirando per l’assenza di tabacco, comunque mi appiccico un Lines Seta Ultra in faccia, funziona, miglioro il tutto aprendomi le ali sul naso e sul mento. Così incollata esco di casa con un’autocertificazione di uscita per motivi di necessità assoluta, compilata con furia delirante, e mi dirigo, stressata, fino al tabaccaio guidando la macchina che so manovrare a malapena. Scendo come se stessi facendo i primi passi su un pianeta alieno, terrorizzata che un bozzolo di Alien si schiuda accanto a me; ho i guanti da giardinaggio e una sciarpa, naturalmente, perché mi impongo di nascondere l’assorbente con le ali, pura idiozia, anche perché inizia a scollarsi per il vapore del respiro. Troppo tardi, adesso sono nel parcheggio, non posso levarlo e gettarlo, non ci sono nemmeno i cestini della spazzatura. Porto il cappello e gli occhiali da sole: do l’idea di una rapinatrice appena uscita da una rissa da bar. Si aprono le porte a vetri automatiche del negozio, entro e con mia enorme meraviglia vedo che i pacchetti sono lì, a rassicurarmi che nulla cambierà, che non dovrò disintossicarmi. I tabacchi se ne stanno belli ordinati, in fila, su scaffali riforniti. Eroica, indico il bene prezioso di cui necessito a una commessa che pare abituata a vedere in questi giorni illogici gente conciata molto peggio di me. Non dico una parola di più. Solo… “grazie”. Compro quattro pacchettini di Eets blu, pago in contanti. Da fumare prima di dormire, moderatamente, senza esagerare, nascosta nel box. Prima di decretare le contingentazioni di prodotti sul mercato avranno pensato: tra i beni essenziali lasciamo le sigarette, se no si crea lo scompiglio più completo. Le sigarette e la crema anticellulite.
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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO UNDICI
Oggi decidiamo di prendere cinque metri di distanza dalla casa in cui siamo stipati assieme a una comunità di felini anziani e di umani anziani. Entrambe le razze ci mettono violentemente a disagio. Padre e madre sono instancabili, trovano ogni genere di passatempo pericoloso, come, nell’ordine: rinforzare l’armadietto del bagno posizionando orizzontalmente un’asse di legno affettata con la sega elettrica circolare, vagare con il trapano rintronante per fare buchi in una parete dietro la quale si nascondono cavi elettrici di cui non abbiamo più la mappatura esatta, arrampicarsi per fare il cambio delle lenzuola in bilico su vecchie sedie di metà del Novecento e altre scomodissime occupazioni. I gatti, al contrario, permangono in stallo nella stessa posizione per lunghe ore, osservandoci in modo polemico. Ci scrutano immobili per ore. È inquietante. Dato che c’è il sole, faremo il pranzo nell’erba. Mentre mi entusiasmo all’ebbrezza dell’avventura, mio marito risponde a una chiamata di lavoro e restiamo tutti fermi per un turno. Ricominciamo un’ora dopo, quando il marito esce gloriosamente dall’ufficio (il bagno) a call terminata, gli occhi luccicanti, tirando lo sciacquone. Oggi, dicevo, abbiamo un programma, finalmente: faremo un bel pic-nic raggiungendo magari la solitaria area pic-nic del bosco. Guardiamo i decreti, non è vietato. Constatiamo con disappunto che ormai, si è fatta l’ora in cui la mattina è già finita, la passeggiata richiederebbe due ore e il figlio ha fame. Beh, andiamo alla panchina a metà sentiero, dico io, a mangiarci almeno un panino. Tre panini! Irrompe mio figlio. Tre panini, accondiscendo. Scendiamo in cucina solo per constatare che mia madre ha congelato il pane. Tutto il pane. Congelato. Abbiamo due alternative e le decisioni vanno prese in fretta: il pane possiamo scongelarlo oppure farlo. Con un calcolo rapido e sagace realizzo che il pic-nic è comunque fregato, ma non mi arrendo perché mi sono intestardita in modo irrazionale, c’è un residuo genetico calabrese nel mio DNA e credo che abbia preso il controllo della sala macchine. Quando mi intestardivo mia nonna diceva che era per via degli antenati calabresi e così mi sono convinta, comunque, idea! Pancarré! Lo nomino con un ghigno e le vene del collo rigonfie, “Pancarré!”, carica di orgoglio fiorito senza una ragione precisa, come se da quella mia scelta dipendesse l’esito della nostra improbabile sanità mentale residua. Preparato un pranzo che neanche un autotrasportatore (senza offesa per la categoria) si mangerebbe all’Autogrill, con mortadella buttata in due fette di schifido pane in cassetta che sa di cloro, raggiungo, con aria festosa esagerata, il marito e il figlio che nel frattempo sono stufi di aspettarmi, detestano i miei ormoni scombussolati e non hanno più voglia di stare con me. Con il malumore per mano, armati di bastoni da trekking, facciamo la famigliola in vacanza raggiungendo l’estremo limite del giardino. Una fotografia tragica che riassume in un’unica cornice tutta la disperazione che sta vivendo l’Europa in questo preciso momento. Arrivati faticosamente al prato, quasi a due, tre minuti di cammino dalla porta di casa, ci siamo abilmente seduti a mangiare nel letame steso di fresco, sotto lo sguardo orripilato dei contadini del luogo che nel campo accanto stavano concimando l’erba come da usanza di stagione. Un cane ha scavalcato il recinto ed è venuto più volte a leccarci con la sua gioia scodinzolante. “Voglio un cane”, annuncia mio figlio. Sipario. ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO DIECI
A me sembrava già sufficiente la giornata di ieri, invece no: e non sono le misure ancora più restrittive il vero pandemonio. Tra supermercati ingolfati, spesa online sempre più complicata, lezioni per bambini da scaricare stampare e abbinare a vocali inviati per messaggio, capita che mi venga offerto un lavoro. Mi chiedono se posso. Dico “Beh, sì”. Sto scrivendo tutta rannicchiata, la schiena incagliata nell’angolo della stanza, appollaiata su un letto piuttosto duro, completamente in ombra. Questo è lo spazio che ho trovato, il lettuccio addossato a una parete color crema, due quadri di nature morte a olio di pittore sconosciuto dalla firma orgogliosamente marginale. Nella camera accanto sta lavorando il marito, risuona la voce prima in inglese poi in italiano, si dispiace che qualcuno sia crollato. Di coronavirus? Penso. No, ascolto meglio, si riferisce alla connessione. È crollata la connessione. E per fortuna, sono fatalista, se ci isoleranno davvero io lo accetterò e ne trarrò un risanamento mentale disintossicandomi dall’idea di essere sempre reperibile. E il letargo? Non lo vogliamo considerare il letargo? Che si mangerà per cena? Avranno bisogno di me per accendere la cucina a legna? Sarà pieno finalmente il boiler dell’acqua calda che devo lavarmi i capelli? Come saranno i numeri dell’epidemia oggi? Che faranno i miei? Che farà mio figlio? Che faranno al governo? Perdo il focus ogni due minuti ma non posso permettermelo, ho tempi contingentati per essere creativa, devo approfittare prima che il tempo scada. Mi sforzo di tornare a me stessa. Non ho parole per descrivere come sono ridotta, ormai vesto abiti larghi in più strati e coperte buttate sulle spalle, qui fa freddo e per non seccare troppo l’aria con la fiamma della stufa a Pellet mi copro con ogni tessuto spesso e potenzialmente riscaldante che trovo in giro, non importa se è il ritaglio di coperta del gatto, me lo metto addosso con tutti i peli che anche quelli aiutano a trattenere il calore. La mia faccia non mi convince da qualche giorno, mi sono lasciata alle spalle (forse per sempre) i lineamenti gradevoli del viso che tentavo di tenere in buona forma nonostante tutta la mia fisionomia stia pericolosamente sporgendosi oltre la soglia della giovinezza. Sembra che io abbia messo i capelli nella lavatrice in centrifuga. La pelle inizia a macchiarsi. Il mio colorito ha dei riflessi che oscillano tra il verde petrolio e il verde bandiera nonostante l’aria buona di quassù. Probabilmente è perché non teniamo conto del monossido di carbonio che stiamo respirando ogni notte in cui lasciamo la stufa accesa. Oggi è arrivato un pacco di mutande basic nere e pantaloni larghi di felpa, neri, per me è la tenuta da lavoro, la divisa da casa. Dobbiamo disinfettarci tutti, a partire dall’ ingresso, dobbiamo scartavetrare la carica batterica delle soglie, insistere a scrostare le orme del tempo dal linoleum degli anni ’50, disattivare l’infettività dell’aria, dobbiamo farlo subito, insistentemente, tutti insieme e ciascuno a casa sua. Devo ringraziare che al risveglio da sogni inquieti non mi sono trasformata in un enorme scarafaggio e che lo stanzino mi sia di riparo e non sia una prigione come per molte altre donne. Guardo la finestra che dovrebbe aiutarmi a rigovernare i pensieri, c’è il Cedro dell’Himalaya, il mio grande riferimento spirituale: ancheggia imponente e brillante al vento sottile della sera, ne osservo la cima alta che si staglia nel cielo, i rami rigogliosi e danzanti, il tronco… ma mio figlio, perché è in giardino in ciabatte? Non doveva fare i compiti? Non importa, li farà l’anno prossimo, se saremo vivi e se esisterà ancora una società occidentale. Mi rimetto sul mio lavoro che non ha nulla di tangibile, che ne so: non igienizza una finestra, non mette su un muro di mattoni, non fa neanche lievitare il pane, sono terribilmente mortificata. Calpestando il linoleum (sono quattro passi dalla porta alla finestra), mi accorgo di quanto sia sporco il microhabitat dal quale tento di esercitare una cosa mentale, sì ma che cosa sto facendo? C’è un obiettivo? Siccome non lo so stamattina ho provato a farmi aiutare dal grande creatore di Senso: all’APP STORE. Ho scaricato un’applicazione per evitare la procrastinazione, ci sono dei gatti e con quattro ciotole di pappa. Ogni 24 minuti, se hai lavorato bene, puoi riempire la ciotola di pappa con un click e il gatto è felice, se non lo hai fatto il gatto si lagna che non gli dai da mangiare. Bene. Io ne ho appena ucciso uno, me lo notifica il telefono all’istante. Vorrei progettare un oggetto e guardare che ne uscirà fuori, non so, magari un frullatore, non so, una lampada. Mi sistemo alla scrivania ma non va bene, alla porta arriva un nuovo suono. Mancava al campionario: è un suono legnoso, ripetitivo, come se ci fosse un alveare di api ronzanti, però è più intermittente, no, più assillante. Stavolta capisco meglio: un graffio, un’unghietta contro il legno, non è lo sbattimento dello scopettone. Non è lo spry detergente. Giro la chiave, apro. È il Signor Cesare Marrali. Il gatto. Stanotte ha svegliato tutta la famiglia perché non è castrato e attorno alle 3 di notte sembra che abbia tentato di accoppiarsi con la mia, che non era d’accordo. C’è un rovescio della medaglia anche a non venire castrati, uno si crede di potere fare qualunque cosa. Glielo dico: “Signor Marrali! Ljuba ha 18 anni. Vuol dire che è la tua bisnonna, la smetti di urlare dalla voglia di accoppiarti che poi le prendi?” Lo faccio entrare. Entrambi soffriamo in ogni centimetro cubico vuoto di questo stanzino woolfiano. Lui si lecca le balle e si appallottola sul micro-letto della “celletta tutta per me”. Ascolterà la conference per il nuovo lavoro tangibile e -forse - se faccio bella figura, remunerato. Ma come siamo diventati schiavi e schiavisti di noi stessi senza avere nemmeno un padrone? Io so già che lavorerò lo stesso e sarò la più severa giudice del mio operato, senza nemmeno sapere se lo sforzo vale il compenso. Questa voce della coscienza è assordante, ma come zittirla in una giornata senza eventi? Quando non hai accadimenti di particolare rilievo non fai altro che ascoltare dentro e fuori, la voce dentro e i suoni fuori. Evito di rendere la convivenza ulteriormente insopportabile. Sento grattare di nuovo lo stipite. Apro. Questa volta è la mia gatta, quella anziana. Quella che Cesare lui ha tentato di farsi nel cuore della notte. Parte una zuffa. Peli, soffi, miagolii infernali, i due gatti sono trasfigurati in due serpenti a sonagli: anche i rapporti tra animali sono così complicati che non mi sento di intervenire in modo logico per migliorare la situazione, vado di istinto. Prendo Cesare Marrali per la collottola, lo butto fuori e mi tiro sul letto la mia gatta anziana, che è incazzata nera e soffia anche a me. In pochi minuti si sistema a guardare fuori dalla finestra, c’è un davanzale interno in legno di una decina di centimetri; lei pare accomodarsi bene. Vede qualche corvo appollaiato sul pino e gli rivolge dei versi da gatta. Tipo: “se non ci fosse questo vetro spesso tu saresti già morto”. Da dietro la porta, il gatto che ho buttato fuori inizia a fare “meeeooow meooow” come fosse un neonato in preda alle coliche. e, in questo clima sereno, dalla stanza accanto si sente chiaramente: “Hi, Alan”, come se Alan fosse dall’altro lato della montagna e non all’altro capo del telefono. “Hi Alan!”, mi pare ci sia l’eco: “Alan… Alan!”, ti salutiamo tutti da questa valle, mandaci delle arance, che sono finite. Perché è successo anche questo: era uscito un post che parlava degli effetti salvifici della vitamina C, il giorno dopo non c’era nemmeno più una Zigulì in commercio. In un periodo di paura senza freni, tutti sono corsi a svuotare gli scaffali prendendosi le arance e lasciando al loro posto delle inquietanti cassette vuote: le rinomate arance di montagna paiono avere qualità vitaminiche inossidabili. In compenso nessuno aveva toccato i pompelmi… forse i pompelmi non sono ricchi di vitamina C? non lo so e non lo cercherò su google. Mi sto distraendo di nuovo. Perché continuo a distrarmi? “Meooowww” fa il gatto fuori, mentre la mia invece insulta ancora un pettirosso o una ghiandaia, non so niente di uccelli, io, e fa un verso tipo motore della Fiat Panda ingolfato. In questo ambiente sonoro pacifico, mentre Alan viene più volte salutato nella call della stanza accanto, cerco di trasformarmi in una persona assennata che lavora con appuntamenti organizzati e una certa quiete lavorativa. Saluto imitando una calma da guru indiano. A fine serata mi aggiro dubbiosa nello stanzino: quattro passi fino alla porta, dietrofront, quattro passi fino alla finestra; così per cinque, sei volte, poi… lo vedo: è un orrendo corvo nero e si è piazzato proprio sul ramo davanti alla finestra, sfacciatamente, come se non ci fossero degli animali feroci ad abitare questa casa. Ha ragione la mia anziana gatta. Mi siedo accanto a lei, dietro al vetro e, senza emettere suono, solo con il labiale, in accordo con il felino, lo mando anche io a fare in culo. ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO NOVE
È ufficialmente pandemia. Non c’è niente da ridere: noi qui avevamo sottovalutato tutto, le informazioni erano troppo sconnesse, comincio a ricostruire chi ho incontrato l’ultima volta, a chi ho avvicinato la faccia, in quali bar ho preso il caffè. Non mi viene in mente nessuno, per fortuna (in questo caso) sono piuttosto antisociale. Dalla presentazione del libro sono passati più di quattordici giorni e comunque anche in quella situazione ho mantenuto la mia distanza confort e niente effusioni ravvicinate. È paura lo stesso, anche se per temperamento tengo normalmente una distanza di due metri da chiunque, mi ritrovo a immaginare scenari catastrofici, anche grazie ai servizi che scorrono in televisione. Ci sono delatori da tutte le parti, si va in cerca dell’infame italiano untore e viziato. Si mette alla berlina un presunto tipo di italiano sconsiderato che ha messo a repentaglio la sanità nazionale, si pescano colpevoli da ogni parte, così possiamo distogliere l’attenzione dalla vera infamia: finanziare la sanità privata e depauperare gli ospedali pubblici. Un tempo erano il fiore all’occhiello della nostra regione. La seconda tragedia politica è che ci si sta organizzando per trovare il modo di recuperare i libri dei bambini rimasti a prender polvere nella scuola ora vuota. Devo ammetterlo, si sente un che di definitivo nel ritiro di tutto il materiale scolastico, un presentimento di fine, di chiusura drastica che nessuna rassicurazione può mitigare. Immagino la scuola tra un numero imprecisato di anni, la classe di mio figlio è ancora lì a prender polvere con i suoi quaderni sullo scaffale, il colore delle copertine mangiato dal tempo, le pagine rinsecchite, l’incarnazione del peggior immaginario post apocalittico: mi vengono le lacrime agli occhi. Ha qualcosa di simile al Titanic, sommerso con i suoi tesori e le cozze a riprodursi in migliaia di neri bivalvi tra una forchetta d’argento e una collana. Forse però le cozze non abitano gli abissi e io devo farmi forza e smettere di perdermi in fantasie devastanti. E noi siamo fuori da Milano. La coraggiosa mamma di una compagna di mio figlio è disposta a prendere anche i nostri libri. Sono commossa e felice: la calligrafia del mio bambino e i suoi disegni non prenderanno la polvere dei secoli, non vivranno l’abbandono, non si inabisseranno e nessuno ripescherà tra molto tempo qualcosa di suo per appropriarsene. E non ci cresceranno sopra le cozze. Inizia oggi il calvario della seria iscrizione ai servizi di consegna a domicilio, della scelta di quello migliore, della disputa tra me e mio marito tra chi deve iscrivere chi, con quali dati, con che carta di credito e quanto spendere, come dare le disposizioni e quando, spedizione rapida? Andiamo in macchina? Moto? Vettura a cavalli? Drone? Ma a che servono i libri di scuola se sta già leggendo Il richiamo della foresta? A che serve la lezione di scienze sulle radici se ieri abbiamo piantato carote, erbette cavolini, pomodori e zucchine gialle? Eppure ho l’idea che dobbiamo mantenerlo conformato: se ci prodighiamo nella didattica alternativa fai da te, ci trasformiamo nella famiglia anarchica di 'Capitan Fantastic' (senza Viggo Mortensen, però!). Naturalmente parliamo per un tempo infinito di niente, trovare la soluzione migliore è divenuta più una sfida personale, una competizione di genere che ci vede come nemici instancabili. Non combiniamo nulla per ore ma decidiamo di andare all’aperto. Lasciamo i miei genitori in casa che stanno smontando il neon della cucina per vedere se riescono a fulminarsi e rinfocolare la diatriba di questi giorni: “Sono morti per coronavirus, di coronavirus, a causa del coronavirus? A causa di eventi correlati al coronavirus? Come li conteggiamo due anziani fulminati mentre cambiano un neon con una scala traballante?”. Dopo aver scelto e pagato un corriere qualunque, forse il peggiore e il meno conveniente giusto per non portarci davvero la diatriba avanti fino a sera, alla fine andiamo a fare la tanto agognata passeggiata sul sentiero sopra casa. Nutro la segreta speranza di riuscire a scovare un angolo di limpida pacificazione con la natura, una tregua dall’incessante e ripetuta percezione della catastrofe mondiale. Vorrei un po’ di pausa dalla comunicazione reiterata della nostra morte certa e vorrei trovarla mettendomi in cammino verso l’alto. Non dobbiamo salire molto, già dopo la prima curva c’è un posto che amo tantissimo, un panorama magnifico, capace di dissipare qualunque pensiero sgradevole. “Venite a vedere che panorama!” esclamo con gioia in piedi sulla cima di ciò che rimane di una chiesa rotta e sconsacrata. Mentre guardo le vette innevate, i ghiacciai che resistono ancora lassù, scontrandosi con il cielo assolato, tutta la catena montuosa stagliata davanti ai miei occhi come un ventaglio dalle punte aguzze, mentre mi inondo e divoro l’immaterialità di questo spazio, mio figlio ha preso in mano (con i guanti) la zampa di un caprone. Dallo stinco allo zoccolo nero. Ripeto: mio figlio ha in mano una zampa pelosa staccata di netto con tutto il suo zoccolo da un caprone. Una zampa grossa, una zampa che pare viva e che mio figlio agita in aria, manco fosse una sequenza di un film dell’orrore o una ricostruzione storica del Malleus Maleficarum. Cosa ci riserverà questo straordinario martedì dopo i resti di qualche rito satanico? Ipotizzo che siamo inciampati nel bivacco di un lupo. Mio marito butta lì che magari, invece, è stato lasciato da un cacciatore di frodo oppure da un pastore autoctono che ha litigato con una capra capricciosa e le ha tranciato una zampa anteriore. E se fosse ciò che resta di un rito satanico? E perché invocare Satana, poi,? C’è già il virus, non state a scomodare il demonio. Ma perché devo pensare male, magari è più semplice: forse la capra si è tolta una zampa perché le dava fastidio, come una scarpa stretta. Magari trotterellando non si è accorta di aver perso un pezzo. Sì. È la versione migliore. Guardo mio figlio, gli faccio gettare l’arto animale a terra, confisco i guanti che più tardi brucerò nel camino, lo spalmo di Amuchina che non si sa mai e decido di spiegare così la stramberia al bambino: “Il caprone stava brucando l’erbetta quando ha sentito dei rumori e, nell’andarsene via in tutta fretta dalla sommità della chiesa rotta, ha dimenticato una delle quattro zampe. Non preoccuparti, ne ha altre tre. Vedrai che è felice.” E anche noi lo siamo. A me, per oggi, sembra sufficiente. ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO OTTO
Un ottimo risveglio con il buon caffè di mia mamma è quello che ci vorrebbe; una delle belle novità della convivenza ritrovata! Prima di scendere, di abitudine, è il momento dell’accensione del cellulare, sei secondi dopo aver acceso la luce. Noto con sorpresa che ci sono diverse chiamate perse da un numero che non conosco, un numero che mi ha cercata con insistenza. Ritenendolo un fatto strano, ma gonfia di speranza, faccio l’errore di richiamare subito per capire se per caso si tratta di una succosa notizia di lavoro, un premio letterario, la vetta di una classifica, un ammiratore, una meravigliosa notizia dal mondo esterno. No. È il corriere di una nota ditta di consegne. Deve avere alcuni problemi in questo periodo, come non capirlo, lo sento stressato, accavalla le domande, sta facendo spedizioni in posti dove non era mai stato e neppure sapeva esistessero forme di vita. Non mi ha trovata, non trova casa mia, non ho la cassetta della posta, non sono del luogo, lui non è del posto, non ha mai sentito parlare della mia via. (Per inciso, il poveretto ha ragione, in effetti la strada è asfaltata da pochi anni, prima era di sassi.) Mi fa capire che sta tornando indietro. Non sono del luogo, è vero, sono di città, in città e in provincia sta dilagando questo morbo terribilmente appiccicoso ma, anche se laggiù è durissima, noi qui siamo sempre in Lombardia: non possiamo spostarci da casa! I miei pacchi resteranno in giacenza in una città a un’ora e mezza da qui che non posso raggiungere perché qui è zona rossa. Io provo sempre un senso di colpa gigantesco con le forze dell’ordine, mi sembra sempre di aver fatto qualcosa di male e che mi scopriranno, inizierei a impappinarmi e a balbettare. Sono tre anni che sto studiando Kafka e so cosa succede nel Processo dalla prima all’ultima riga; io mi comporterei esattamente come lui, anzi, peggio, mi sento già dire: “Vado a recuperare dei pacchi postali che il corriere, dato che non trovava la strada di casa, dato che è una strada nuova, dato che prima era inesistente, dato che…” Non può funzionare: ho già preso una multa al secondo “dato che”. Mi sono pugnalata da sola senza lasciar neanche il tempo alla polizia di dirmi se ho torto o ragione. Non posso andare alla sede del corriere. Mi sale la disperazione. Ci sono momenti in cui bisogna essere reattivi, momenti come questi, io e il corriere riusciamo a raggiungere un accordo: gli invio la mia posizione con Google Maps mettendomi davanti alla cancellata. Sono scesa in pigiama e pantofole, sotto la neve, i piedi che affondano. La posizione corrisponde all’indirizzo che ho scritto sul sito, ma adesso è corredata di numerini, che saranno, immagino, le coordinate GPS. Il mondo, ora, sa dove mi trovo: ho attivato il localizzatore, ho rinunciato alla privacy, un satellite mi ha tracciata e infilzata dalla punta del cranio alla terra su cui cammino, trasmettendo l’esatto numero di casella della scacchiera del mondo su cui sono poggiate le mie fradice babbucce di pelo, conquistate dal nevischio. Non mi tingo di nero i capelli (solo di blu), ma dall’alto, se avessi il problema della ricrescita che lamentano alcune amiche in questo periodo, magari mi fotograferebbero il grigiore avanzato e io ne sarei imbarazzata. Magari. Non so perché lo penso, mentre il vero problema è che sto prendendo la polmonite anche senza bisogno del virus. Il corriere adesso mi risponde su whatsapp, anche lui prova la stessa rivelazione astronomica che sto provando io, siamo due persone ora, due contatti in confidenza al di fuori dei nostri ruoli di Ricevente del pacco e Portatore di pacchi: appare la foto di un signore gentile sorridente appoggiato alla parete esterna di una casa color crema. Non è più anonimo, anche se sul mio telefono è salvato come CORRIERE (nome ditta), e non lo sono nemmeno io. Ora mi scrive addirittura messaggi personali: scrive che non vede il mio numero civico. Glielo fotografo, con tanto di neve sopra e intorno, glielo invio. Mi richiama, è agitato perché la strada gli sparisce davanti al camion, naturale, ha ragione, non è giornata: è che c’è la neve. Concordiamo che non posso aspettare fuori all’aperto nella neve come Jack Torrance nel labirinto dell’hotel, se no mi ritrova con il cellulare in mano, ibernata. Verrà un altro giorno. Formulo un piano: nella prossima spedizione ci sarà anche una cassetta della posta con porta pacchi a prova di distanziamento preventivo, così il corriere potrà metterci i pacchetti senza avere contatti fisici con me. Chissà se ha provato lo stesso terrore che ho provato io, come una specie di collisione tra due meteoriti nello spazio. Non so se è una soluzione ragionevole, ma per David Lynch non farebbe una piega e io, sveglia da pochi minuti, in stato confusionale, davanti a un cancello innevato con un pigiama di quando avevo 16 anni in pile blu con raffigurazioni silvestri, sono riuscita a raccogliere solo questa quantità di sagacia. Sono sicura di non aver reso l’idea, ma io, prima di questo covid, sono sempre stata una che associava l’isolarsi in montagna a una specie di desiderio vitale. Salire fino ad arrivare in cima, essere fortificati, aprire la finestra a torso nudo, le braccia appoggiate agli stipiti e guardare la cresta e l’immenso spazio che ci separa, fino a dimenticarsi di tutte le miserie ombelicali che ci affliggono. Invece mi trovo conciata che neanche il peggior stereotipo di sciatteria, allarmata come una marmotta per un corriere che mi sfugge via con un pacchetto che neanche mi ricordo… ma cosa conteneva? Cosa di così essenziale conteneva? Torno a casa muovendomi come una semicongelata, con la stessa malagrazia di una pigna che precipita sul vialetto. Raggiungo la famiglia radunata per la colazione e prendo il pentolino dell’acqua bollente del the direttamente dalla stufa a legna a trecento gradi senza presina. Con un’ustione di terzo grado che nascondo con leggiadria, faccio colazione con rinnovata disinvoltura. Brucia mostruosamente ed è la destra. Con la sinistra rovescio metà dei cereali sulla tovaglia, lo yogurt mi si sbrodola sulla maglia e mi spalmo del miele sulla confezione di pancarré ancora sigillata dalla plastica. Io così: se mi sveglio male sono spacciata. Sono spacciati tutti. Attacco briga a caso con il marito, sono intorto marcio perché ho consumato tutti i giga della connessione guardandomi Il racconto dell’ancella. Oggi l’imperativo categorico è scrivere il mio romanzo: annuncio solennemente che mi chiuderò in una stanza a chiave e non dovrò essere disturbata per ore. Esco che sembro la signorina Rottermeier nel pieno dei suoi giorni ruggenti. Prima, però, impugno una patata sbucciata trovata in dispensa per calmare i dolori dell’ustione, l’unico rimedio certificato e di sicuro successo. Con la patata tra le mani mi chiudo a chiave nello stanzino piccolo e buio dove di solito ci sono le valige. C’è un letto e una scrivania e lo spazio per stare fermi incastrati a guardare mezzo pino dalla finestrella e pensare alla morte. Sono sicura che ce la farò, anche senza stufa a olio, con il freddo che mi prende i piedi e il palmo della mano che si spella. La sofferenza è un motore dell’arte, è immenso sentire quanta contraddizione ci possa essere nell'intercapedine tra il brivido e l’ustione, tra la depressione e l’ipomania. Sento già l’ispirazione cavalcarmi la mente e il pensiero spostarsi più in alto, scansando comodi rifugi e proiettandosi verso il senso dell’umanità, ovvero: perché mi sono alzata dal letto? Sul serio, a quasi quarant’anni, qual è il mio scopo in questo mondo? Forse ho la febbre. Fisso il computer, ma niente: ascolto solo i battibecchi. Ci si confronta su quanta glicerina debba essere diluita nell’etanolo procurato di straforo dalla farmacista del paese per riuscire a produrre un disinfettante che non corroda le mani. Ma chi se ne frega, cosa vuoi che sia avere la pelle un po’ irruvidita: io alla mia mano destra ci ho già rinunciato! C’è un virus. Nevica. Le mascherine sono terminate. Il cellulare ronza come impazzito per le notifiche. Il figlio con la sua innata ironia sta di nuovo imitando il notiziario e parla del presidente del consiglio che lancia la diretta. Lo ascolterei per ore, è meraviglioso. io guardo con insistenza una stanza a caso e considero tutto quello che diceva Virginia Woolf riguardo ad avere una stanza tutta per sé. Infine, con un’esclamazione chiassosa, sento dire che si è fulminata la luce al neon della cucina. I negozi sono chiusi. Non abbiamo candele. Resteremo al buio. E poi? Non avevano anche liberato gli orsi un anno fa? Sam Raimi avrà scritto La casa in una situazione di questo tipo? Come gli sarà venuta in mente la strega tumefatta che sbraita dalla cantina? Aveva anche lei una botola tutta per sé? Da qui in poi arrivare a sera è una passeggiata: scrivo una riga ogni due ore ed è brutta, passo cinquantacinque minuti per volta ad avere l’ansia perché ho scritto solo una riga brutta, penso ossessivamente a come cuocerò la patata che ho usato per calmare la scottatura. Mi accorgo di essere congelata. Annuncio solennemente che ho deciso di piantare lì a riga quattro per accendere il caminetto. Il figlio è felicissimo che io voglia fare con lui un’attività per bambini. Raggruppiamo tutto il necessario: fiammiferi, diavolina, segatura intrisa di kerosene, pigne secche, pezzi di cassette della frutta, legnetti e legna di pino piena di schegge, un residuato bellico inesploso e dei proiettili del quindici-diciotto. Esagero? Non voglio rischiare di perder tempo, la fiammata deve salire potente e in fretta. E mentre cerco di capire se faccio prima a fare una bomba di carta di giornale con la segatura oppure se ci conviene partire da diavolina infuocata con pigne secche a presa rapida, mi accosto al vuoto del camino e sento una voce che recita il Credo. Io e il pargolo ci guardiamo. Infilo la testa nella fornace (che, ricordo, è pronta a incendiarsi alla prima scintilla). Ed è così che vengo naturalmente a scoprire che, per un sofisticato sistema di areazioni, siamo collegati con la Chiesa o con qualche altra casa di gente che prega. Non è follia: avviso tutta la famiglia e tutti vogliono accertarsene, dapprima sono riluttanti, poi mettono tutti la testa nel caminetto: è vero! Si sentono le voci! Si prega! Intanto nel braciere è già posizionata la palla di kerosene e a mezzo metro dalla bocca del camino c’è un piccoletto che sta seriamente esercitandosi ad appiccare la scintilla a dei fiammiferi. È mio figlio, che sto trascurando subito dopo avergli messo in mano la benzina. Chi potremmo carbonizzare per primo tra noi cinque? La sera scende così, senza vittime, ma con grandissime riflessioni sul senso dell’umanità ovvero: perché mi sono alzata dal letto? ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO SETTE
Dal momento in cui ho realizzato che sarei rimasta qui con tutta la famiglia a far andar la stufa a legna almeno una settimana, sono passati, diciamo, sette giorni. Forse di più. Non ho nessuna certezza. È la festa della donna, ci consigliano di stare in casa. No, stavolta non solo noi donne. Dobbiamo stare in casa tutti e, già che ci siamo, dato che è la festa della donna, abbiamo tutte noi la grande opportunità di mostrare finalmente come si indossando i guanti di lattice per utilizzare i prodotti igienici senza corrodersi la pelle, come sanificare il water e, finalmente, una ghiotta occasione per dilettarci nel passare gli stracci per la polvere assieme ai maschi, con i quali condividere lo sport dell’annacquare il disinfettante per superfici nel secchio e passare lo straccio, operazione tramandata per linea femminile attraverso l’RNA dai tempi del togliere le ragnatele alle caverne. Bello. Un otto marzo molto particolare: non è un otto marzo con il pugno chiuso in manifestazione a riappropriarci di uteri e scrivanie, ma un otto marzo a schiavizzare (chi ha saputo coglierne l’opportunità ne avrà goduto di grande piacere) i compagni maschi in casa, munirli di patine e mascherine antipolvere e invitarli a prodigarsi nel lavoro di cui noi deteniamo i vertici, in cui noi siamo in cima. Oltre qualunque soffitto di cristallo, e se è di cristallo, è di Boemia ed è quello del lampadario della trisavola con le gocce sfaccettate da spolverare. Certo, senza generalizzare: io, ad esempio, non so davvero passare la giusta quantità di cera sul parquet e se ci provo uccido la gente, che va giù in caduta libera al primo passo falso, quindi non è che se sei donna sei esperta, si sa i soliti luoghi comuni che fanno costume. Nella notte fughe di notizie e fuga dalla Lombardia: si vocifera che siamo stati messi in quarantena. Il marito sottovaluta: “ma figurati se fanno una così così, ma tu sai che crollerebbe tutta l’economia". Ha ragione, ho penso. Mi sono appropinquata al giaciglio con atteggiamento dimesso, in stile “scusate se esisto”, per poi, alle due di notte, a decreto firmato, riprendermi, svegliarli tutti, gatti compresi, mostrare la notizia che confermava la chiusura della Lombardia e recitare, in modo volutamente petulante: “ve l’avevo detto, ve l’avevo detto!”. ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO SEI
Oggi c’è un sole che davvero è meraviglioso, sento il senso di colpa grave di non lavorare in un giorno lavorativo, ma posso farcela a superarlo, in virtù di una situazione meteorologica paradisiaca. Mi siedo in giardino e mi immagino di andare a sciare. Sono sulla pista e mi sento la sciatrice più triste, più ermetica, più scostante di sempre. Nella veste della turista sportiva la mia intuizione poetica, il mio sistema di pensiero e riflessione, il mio indugiare sulle atmosfere estetiche del paesaggio viene comunemente chiamato: “Ehi, lo vogliamo prendere il piattello o stiamo qui a fare notte?”, e così mi prendo lo skilift tra le gambe e non so perché mi vengono in mente i Krampus, questi diavoli della tradizione folcloristica che avevo studiato al corso di antropologia. Ricordo il documentario che mostrava questi tizi travestiti da demoni che piombavano a dare grandi mazzate a tutti. Non c’è collegamento logico alcuno: una specie di divinazione, mi viene da dire pensando ad alcuni scritti di Artaud. Sciare risveglia in me una combinazione di sentimenti atavici: mi viene voglia di morire. No, davvero: salgo su per la montagna e mi sento male. Mi viene voglia di scappare a gambe levate mollando tutto lì nella neve, girare la schiena alla fila di sciatori che si affolla in cerca di un piatto di polenta e salsiccia. Guardo come degli strani esseri quelli che si lanciano negli slalom giganti con eleganza gridando: “È una giornata fantastica, incredibile! Evviva!”. Ecco, io amo scivolare nel vuoto, ma lo faccio più perché entro in contatto con quel desiderio di lasciarmi cadere: potremmo chiamarla angoscia e abbandono. Mi viene in mente che non dovremmo disturbare questo ecosistema con la nostra presenza e dovremmo solo stare in silenzio. E così sono divisa in due: da una parte la sensazione di volare, che è stupenda, dall’altra quella di essere fuori posto: mi metto a guardare i burroni, individuare un dirupo perpendicolare e profondo, cercare un crepaccio. Fortuna che poi finisce tutto, anche questa fantasticheria, e torno a essere a casa nel mio isolamento a guardare mia madre che, con il ginocchio sempre più gonfio, lucida ancora il vetro della stufa, lo chiude, fa partire l’accensione e io, seduta e felice, osservo che in tre secondi netti ritorna nero. Lo trovo fantastico: questa attività non avrà mai fine, è come Penelope, il vetro dovrà essere lucidato ogni volta e non c’è la più recondita possibilità che il bruciatore non affumichi la lastra trasparente apparentemente ignifuga. Il moto perpetuo è la nostra salvezza: una scoperta straordinaria. Nella chat di classe di mio si sente che il vero dramma culturale in Italia è: dove cazzo mettiamo i bambini se non vanno a scuola a studiare? Le soluzioni proposte dalle madri anche in rete e sui giornali, nei post e nella messaggistica sono tante. Le “smart lessons”, lezioni in video, Power Point, il niente totale, chi dice che non farà fare attività ai figli, chi teme che si trasformino in selvaggi, chi lo desidera chi si fa spedire i libri e i quaderni, chi deve reperire una stampante. Non lo so. È molto complesso, ognuno ha la sua personale drammatica situazione. Io sono per i cartoni educational. Secondo me potremmo dare una bella laurea in medicina a chi arriva al termine della serie completa di Esplorando il corpo umano, che a casa mia va per la maggiore ed è corredata dalle puntualizzazioni in gergo scientifico dei miei genitori come una vera mini lezione universitaria precoce. In altre famiglie di cui ho sentito parlare, ove si apprezza l’ingegneria, qualche bambino è divenuto progettista della Lego pronto a stipendi ben più alti di quelli previsti in Italia per la professione. Intanto nel mondo reale ci sono le prime lauree via Skype e si discute la tesi attraverso la webcam, il Politecnico è il primo. Usciremo da questa epidemia investendo sull’istruzione pubblica e spero soprattutto sugli ospedali pubblici. ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO CINQUE
Soprattutto la mattina, quando tutti escono e in casa cessa qualunque presenza umana, quando rimango a stretto contatto solo con animali selvatici addomesticati, per lo più gatti (ma non si esclude che ci sia qualche topo e un piccolo cerbiatto poco sopra casa nel bosco), quando aprendo la finestra sento lo scrosciare del ruscello che correndo a rivoletti tra i sassi si conquista il torrente per finire nel fiume, io mi sento ottimista e confortata. In queste giornate epidemiche di massa, in giorni di panico psicotico, come in tutti i fenomeni che interrompono la miseria del nostro quotidiano, c’è qualcosa che ci fa essere incontenibilmente felici. Non dovremmo, c’è gente che soffre, certo, ma il fenomeno felicità inappropriata, seppur indicibile, è innegabile per qualcuno. Il motivo ha a che fare con l’idea che quando vivi un’epoca di depressione sociale, qualunque cambiamento potrebbe nascondere una riscoperta della possibilità di virare la direzione della nostra vita verso un senso più concreto. Ma non dici che speri che duri ancora un po’, non lo dici per non essere considerata superficiale, avvantaggiata, privilegiata, insultante. E, di certo, in questo momento io lo sono. Da quando il Vaticano è stato infettato e non ci si può più scambiare un segno di pace, è deliberatamente guerra, tutti contro tutti. Il gatto nuovo contro quelli vecchi, il figlio contro il padre, un bambino disperato e inconsolabile perché gli comunicano oggi che ha toppato una porta nell’ultimo slalom durante la scorsa gara. Io mi affretto a trovare la stessa coppa vinta dagli altri in qualche shop online. Mia madre sbuffa contro mio padre e tutti contro di me. Non possiamo toccarci, è un presidio medico, una precauzione, è meglio prendere le cose seriamente! Per rilassarmi ascolto i podcast di Burioni, che in confronto al clima che si scatena in casa in certi momenti, mi appare gradevole, cordiale e lievemente più garbato. Accendo il tg su Rai News e riesco a ritirarmi in una stanzetta e mi ci chiudo a chiave. Ho con me una stufa elettrica a olio del 2001. Cerco la famosa ispirazione per scrivere il mio romanzo: qual è il vantaggio di non essere dominati dalla vista? Che cosa cambia nella nostra personalità? A questo punto, dopo cinque minuti di riflessione, mi bussano alla porta a vetri della stanza. Non c’è corrente per far andare l’acqua degli scaldabagni, ne so qualcosa? Assolutamente no, urlo abbracciando la stufa a olio, comprata a basso costo a Udine: consuma 3500w, praticamente tutta la corrente della casa. Quando se ne accorgeranno, avranno già fatto una bella doccia gelata, e qui per gelata parliamo proprio della famosa acqua di scioglimento del ghiacciaio sopra di noi che viene incanalata nel nostro sistema idrico. L’acqua fredda fa bene, riattiva la microcircolazione e lascia tutti sotto shock per un’oretta e mezza. Io, intanto, trovo la spedizione rapida per la coppa da sciatore che voglio dare al figlio, a cui non hanno nemmeno dato la medaglia di consolazione. No allo slalom e giù dritto. Per questo suo temperamento nettamente anarchico che amo smodatamente, voglio premiarlo con una coppa trionfale. All’urlo “libertaaaaaà” gli porgerò la coppa Bakunin. ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO QUATTRO
E mentre è ufficiale che per altri dieci giorni e forse di più ognuno deve stare fermo dov’è (e staremo chiaramente qui), le scuole iniziano a organizzare le lezioni da remoto: sono previste lezioni online per i figli, che devono essere messi nelle condizioni di seguirle, mentre i genitori, se insegnano, dovranno impartirle. Dunque: con un computer mio figlio seguirà le lezioni mentre la mamma e il papà registreranno le lezioni online in diretta. Non che io voglia essere antitecnologica, ma la situazione è che le pareti qui non sono studiate per essere proprio spesse e mio figlio non è ancora autonomo con il tablet, o meglio è molto autonomo, infatti appena si annoia con l’inglese mette i Pokémon, con il brillante risultato che a fine serata ha studiato le tre evoluzioni di Pikachu e le sa perfettamente. Io intanto cerco di fare una prova. La cosa a cui non posso fare fronte è che lo studio è accanto al bagno e lo sciacquone è a manovella. In più abbiamo tre gatti che mangiano tantissimo e la sabbietta va pulita ogni volta, onde evitare che preferiscano il tappeto. E, mentre sto per riprendere la lezione ideale, mia mamma smonta di nuovo la stufa a pellet per aspirare la cenere da fornelletto carbonizzato. Prova generale: come reagirò all’imprevedibile in caso di diretta? Intanto il coronavirus imperversa, i musei sono aperti ma bisogna mantenere la distanza di sicurezza di un metro e ottantacinque centimetri tra uno e l’altro e di cinquecento metri se l’altro starnutisce. Dopo l’assalto alla pasta e l’acquisto compulsivo di mascherine, io intanto considero che sia una buona idea, oltre al gatto, adottare una capra e una gallina... È un ritorno alle origini? ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO TRE
Oggi il virus era improvvisamente uno scherzo. I giornalisti chiedono di abbassare i toni e di stare tranquilli che tutto passerà presto. Sgraniamo gli occhi perplessi ma restiamo fermi dove siamo. Ricapitolando, avevamo due gatti, adesso ne è arrivato uno nuovo: tutti parlamentano sul nuovo gatto che dovrebbe aggiungersi alla famiglia. Mio padre si chiede: “Cosa facciamo, c’è la neve, fa freddo… devo lasciarlo fuori? Perché mi guarda, perché miagola, perché alza la coda?” E, mentre dice che non vuole altri gatti, lo sta già pettinando, accomodandolo sulla poltrona del salotto. Mia madre sentenzia: “Viviamo alla giornata”, e mio figlio si propone di diventare una guida per gatti. Non so che professione sia, ma io approvo chi in questi tempi di crisi sa inventare un nuovo mestiere. La televisione è accesa sul coronavirus h 24, il focus è sugli ospedali: intervistano dei medici, dei ricercatori, molti opinionisti e anche gente comune. Pare che i matti del reparto di quel policlinico abbiano chiesto a medici e infermieri di vestirsi e truccarsi bene per essere di bella presenza, nella speranza di essere intervistati. Ed è proprio a loro che sto pensando mentre ascolto le opinioni in televisione. A quando arriva l’ora della terapia. Mio figlio ha la sua fase “imito Mentana, imito Lilli Gruber, imito il tiggì uno, due e tre”, e si aggira dicendo cose e traducendo le stesse espressioni e la stessa confusione che viviamo noi. Sembra in perfetta sintonia con le informazioni appena ricevute dal catodico di montagna. Che spegniamo. Cominciano a terminare le riserve di Moment Act per l’emicrania. Mi serve dell’ibuprofene subito… succede quando avevi progettato di andare in montagna con la tua famiglia per scrivere un po’ e respirare aria pulita senza sapere che sarebbe esplosa un’epidemia. ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO DUE
Psicosi collettiva. Una mascherina costa quasi cento euro: si disputa se sia meglio Burioni o “quella del Sacco”, anche giù dal panettiere ci sono pareri diversi. Oggi giù in città è stato preso d’assalto il reparto pasta del supermercato. Noi in montagna abbiamo preferito assicurarci i vaccini: stagionati, freschi, caciotte affumicate, erborinati d’alpe, latteria, formaggi di malga. Mangiamo quintali di prodotti caseari, mi sento appesantita, a casa assaggio vagamente qualche scaglia di grana, qui ho dato l’assalto alla gastronomia rustica della latteria del luogo. Mio figlio ha nutrito un gatto che è passato a trovarci e che si è fermato davanti alla porta a vetri, si è affezionato al suddetto felino e ha chiesto di tenerlo. Mia mamma ha risposto di no perché ne abbiamo già due e, nella stessa frase, senza soluzione di continuità, con la coerenza che la contraddistingue, gli ha chiesto come lo voleva chiamare. “Marrali”, ha risposto mio figlio. Silenzio. A questo punto la mente scientifico-logica materna ha avuto una reazione nervosa, una forma di rifiuto isterico perché non capiva cosa volesse dire “Marrali”. "Non puoi dargli un nome che non vuol dire niente!”, ha ribattuto mia mamma assennatamente. Il figlio ha spiegato con calma tutti gli infiniti significati che nella sua mente di pianista in erba sono andati a comporre quel nome: “MARRALI: MARR perché è marrone, e ALI perché... così... quindi MIRÒ + MARRONE + ALI = MARRALI!” E mia mamma: “Ma no, ma non è un nome!”. Mio figlio ha insistito: “Allora lo chiamiamo SIGNOR MARRALI, così è un cognome!” Mia mamma: “No, al massimo lo chiamiamo CESARE. E comunque non lo prendiamo, adesso dagli da mangiare.” Ernesto, dopo che mia mamma è uscita, ha chiosato: “Tanto, mamma, domani lo facciamo entrare di sicuro...” Benvenuto SIGNOR CESARE MARRALI! Piccola premessa
Questa storia inizia molti giorni fa: siamo saliti in montagna per le feste di Carnevale. Nelle ore notturne tengo spesso un diario e così sono rimasta impigliata anche io nel racconto della quarantena, quasi per caso, come molti. Ho notato che mi serviva rileggerlo anche per ricostruire un rapporto con il tempo e non perdere il filo delle giornate, guardando anche come avvenivano e come venivano percepite le notizie in diretta e che tipo di cambiamento intimo e pubblico ci sia stato. Così, in attesa del ritorno a casa o in attesa del ritorno alla vita di prima, condivido, per chi ha piacere di leggerlo, quello che è accaduto a partire da due settimane fa. ISOLAMENTO IN MONTAGNA - GIORNO UNO Siamo qui già da una settimana e qualche giorno, ma da poco abbiamo capito che ci resteremo, perché in città imperversa il coronavirus, le scuole sono chiuse per precauzione è meglio evitare troppi spostamenti. Oggi i toni sono drammatici e allo stesso tempo sotterraneamente, mentre si prospetta una nuova Spagnola, mentre si ricordano le misure della Sars, si fa dell’inconsapevole ironia, poi però appena qualcuno tossisce viene guardato con orrore. Tutto questo accade in televisione, ci diciamo, e dubbiosamente ci riserviamo un tempo per pensare se si rimetterà in sesto a breve. Intanto stiamo qui e qui, in qualche modo ci sentiamo di non fare male a nessuno. Siamo al sicuro? Tempo per leggere e meditare? Scrivere con tutti intorno è un caos. Tutti si ripetono le cose urlando almeno sei volte perché ognuno di noi parte a turno per il viaggio nel suo iperspazio mentale. Mia mamma si uccide di fatica e devi rincorrerla mentre smonta col cacciavite la stufa a pellet e la ripulisce con l’aspirapolvere. È sdraiata con la schiena sul pavimento freddo, sta lucidando un vetro che diventerà nero alla prima accensione, ma non puoi non aiutarla perché il senso di colpa ti ucciderebbe. Poi accendi la stufa e fissi il vetro che si annerisce. Il marito parla a voce altissima in inglese, è in collegamento con la Finlandia dove forse lavora a qualcosa di incomprensibilmente informatico. Naturalmente qui siamo in montagna, la connessione Skype si sente male e lui impreca contro Tim, Wind, Tre, Eolo e Zeus. Mio figlio è un capolavoro, anche senza bisogno del triciclo, si aggira come in Shining per il corridoio e ripete le parole del papà: “merda, merda, merda”. “Merda, merda, merda!” is the new REDRUM. |
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March 2021
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