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  FRANCESCA SANGALLI
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poesie anatomiche

3/14/2021

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LEGGI LE POESIE

Le Poesie anatomiche sono state composte per il teatro LAC di Lugano nel progetto Lingua Madre, capsule per il futuro, ideato da Carmelo Rifici e Paola Tripoli. Son o redattrice del progetto insieme a Lorenzo Conti,  Angela Demattè,  Riccardo Favaro. 
Questi componimenti sono diventati ispirazione per Alessio Maria Romano per un video di danza all'interno della struttura nascosta del teatro stesso, in parallelismo con il corpo anatomico dell'edifico che sa generare emozioni, incontri, che permette di muovere pensieri ed elevare la cultura. il video e il montaggio sono stati curati da Olmo Cerri di REC.

Pagina di presentazione

Nel Link al video in alto i testi originali si scaricano cliccando su TESTO e sono tradotti in inglese da Camilla Maccaferri 


COSA MUOVE LE POESIE?
L’essere umano è un’inscindibile unità psicofisica. La parola entra dunque nel corpo nelle nove poesie anatomiche, interconnettendo le tavole di anatomia patologica e la sintesi poetica, per manifestare con violenza corporea l’origine psicologica di un sentimento, un temperamento, un’indecisione, una regressione. Ho qui cercato i nessi organici con precisione chirurgica, fino a consegnare le composizioni alla danza perché se ne potesse trovare l’incarnazione ed esplorare l’espressione corporea.
Francesca Sangalli


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ritornando ai giorni di quarantena

3/12/2021

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Ho interrotto con il ventiduesimo giorno di quarantena le vicende, i pensieri e l'autobiografia della montagna.
Si tratta di racconti che oggi ritrovo comunque molto incisivi perché scaturiti da una situazione densa di emozioni, le cui regole erano rovesciate, gli equilibri eccezionali ed è  in questo tipo di situazione che l'osservatore può avere quasi l'impressione di modificare notevolmente l'oggetto osservato se non tutta la realtà, così adesso il gatto che abbiamo adottato e chiamato Signor Cesare Marrali mi ricorda idealmente il gatto di Schroedinger. 
Oggi ripropongo le ventidue giornate anche per dare una forma e una chiusura al diario, domandandomi ancora una volta quanto sia stata io a influenzare i comportamenti della casa i nostri stati d'animo e la mia percezione degli stessi.  


Giorno uno
Giorno due​
Giorno tre
​Giorno quattro
​Giorno cinque
​Giorno sei
​Giorno sette
​Giorno otto
Giorno nove
Giorno dieci
Giorno undici
Giorno dodici
Giorno tredici
Giorno quattordici
Giorno quindici
Giorno sedici
Giorno diciassette
Giorno diciotto 
Giorno diciannove
Giorno venti
Giorno ventuno
Giorno ventidue
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Racconto di mio padre

11/9/2020

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L’ora di uscire per il turno di notte. Come al solito c’è un traffico intenso. Sempre tutti in coda sulla Milano Monza. Guaro spesso l’orologio al polso: non si tollerano ritardi, bisogna arrivare anche in anticipo per il passaggio delle consegne.
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​I colleghi del turno pomeridiano non ne possono più di andarsene per poter cenare e ti aspettano fissando le lancette, a quello penso mentre sto al volante. Ma non posso farci nulla e così sperando di non dovermi trovare nell’umiliante situazione di scusarmi del ritardo, accendo la radio e ascolto il notiziario per scacciare le preoccupazioni. All'inizio non mi è chiaro cosa stia succedendo: è un resoconto preso a metà… devo ricostruire…  a si racconta della difficile situazione nella Germania est ma soprattutto Ungheria e Polonia con migliaia di cittadini tedeschi in attesa dei visti per la Germania ovest. Sapevo che nei mesi scorsi c’era stata parecchia tensione tra i cittadini della DDR e le autorità comuniste cercavano in ogni modo di mantenere il controllo. Sapevo anche che la tensione si era ulteriormente acuita nei giorni immediatamente precedenti, ma non avrei mai immaginato quello che stava accadendo. Imbocco la tangenziale. Sono stanco e mi aspetta una notte in piedi ma non conta più: arriva un annuncio chiaro e improvviso: il ministro della propaganda apre i posti di blocco alla porta di Brandeburgo! Notiziario delle 19:30, credo. Ecco questo quello che mi ricordo. Ancora? Dunque… niente, poi ho lavorato la notte si corre da una parte all'altra... pazienti e parenti, a volte gente che sta malissimo, a volte gente che non ha niente di speciale ma vuole rassicurazioni… un grosso guazzabuglio umano. Più o meno tutte così le notti.

In centralina del reparto c’è il solito fermento. Il medico di guardia mi ragguaglia dei casi urgenti da seguire di notte mi riferisce anche di una chiamata da PS per visita a parere e infine si ferma a commentare le grandi novità dalla Germania. Di solito si cerca il silenzio però mi ricordo le radioline a transistor in reparto, alcune sui comodini, tutte a mandare le stesse notizie in una specie di confusione. Tiro dritto per la corsia e mi fermo giusto il tempo di notare il televisore della sala soggiorno per i non allettati. È acceso sul notiziario speciale. Non mi ricordo quale notiziario, quale canale… però ci sono persone intorno che commentano: medici, infermieri, tecnici di radiologia e pazienti. (quelli che non stanno troppo male, ovviamente. Sono pneumologo, a volte i miei pazienti più che occuparsi di parlare sono impegnati a respirare) Però quelli che non sono allettati sono eccitatissimi, c’è un capannello di gente che discute del muro di Berlino. “Dottore ha visto?” qualcuno mi dice cosa sta succedendo e poi mi ricorda che sente un dolore, o che ha un fischio respiratorio.  Magari serve più ossigeno... ricordo una signora… mi si avvicina mentre sono lì nel calderone e mi fa vedere le braccia: è convinta di avere la vena del braccio destro più gonfia di quella del braccio sinistro... forse in tutto quel contesto sarà un messaggio in codice legato alla situazione politica internazionale?


Al momento la cosa mi sembra incredibile. No, non è incredibile che la signora abbia una vena più grossa dell’altra a destra, che poi è una sua fissazione, ma sono colpito che non ci siano morti o feriti, lì a scavalcare il muro di Berlino. Eppure improvvisamente non c’è più nessuno a sparare per impedire il passaggio.


Vedo qualche immagine di sfuggita ma non posso fermarmi molto. “Signora le sue vene cefaliche sono bellissime.”
Scendo in pronto soccorso con l’ascensore, un infermiere già distrutto dal sonno mi dice che molti abitanti di Berlino Est stanno passando nella zona Ovest e che le guardie stanno aprendo alcuni posti di blocco, spinti dalla massa incalzante della gente, senza reagire. Ripete in diretta quello che sente, ma è innervosito perché l’ascensore gli sta rovinando il segnale… ha la radiolina a transistor.
Che altro? In P.S squillano telefoni, arrivano persone di ogni tipo. Come fa mia moglie a lavorare in pronto soccorso tutti i giorni? Ci sono agenti di guardia, gente che cerca di farti vedere un taglio, un tremore, chi si è addormentato sulla sedia aspettando. Mi impegno a dare il mio parere sul paziente per cui mi hanno fatto chiamare, con queste notizie che filtrano discontinue. Fortuna torno in reparto presto e anche lui mi raggiunge con la barella, accompagnato dall’infermiere. “Dottore secondo lei è finito il comunismo?” Mi chiede, ancora scocciato della radiolina schermata nel tragitto. In un momento di pausa vado a chiedere come procede a un gruppo di pazienti che stanno seguendo gli eventi in tempo reale via radio. Non mi sembra vero: finalmente questa follia del muro sta per terminare. La DDR in grave crisi politica ed economica, non più sostenuta dall’unione sovietica di Gorbaciov, doveva cedere: mi sembra una cosa bellissima e incredibile. Ma devo rimandare le chiarificazioni alla mattina dopo, chissà se Anna ha seguito tutto. Forse sta dormendo. Anna è mia moglie è a casa, lei il turno lo comincia tra qualche ora, parte da casa alle sette del mattino e attacca il turno alle otto. Probabilmente passa a salutarmi mentre smonto. Di solito facciamo così chissà che serata ha passato lei, se ha visto la televisione. Ora devo dedicarmi ai pazienti, alcuni dei quali gravi, sofferenti, a cui del muro di Berlino proprio non importa niente: cercano solo di sopravvivere come possono. Un anno dopo però, all’anniversario della caduta, sempre in ospedale, mi ricordo che una mia collega è arrivata tutta esultante e ha detto: guarda! Ho un pezzo del muro, sono andata a prenderlo a Berlino. E invece io sempre Milano Monza. Monza Milano.

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è scoppiata la pace

4/25/2020

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Ascolta "È scoppiata la pace" su Spreaker.
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Un piccolo pensiero e un ricordo che abbraccia un arco di amore speranza e crescita dalla Liberazione alla riapertura della Scala.  

​clicca qui
​https://www.spreaker.com/episode/26004333
​

Voci
Sergio Leone
Giorgia Senesi
Testi e racconti tratti da "La mia Ricostruzione" ,
reading teatrale sulla Ricostruzione di Milano,
di Francesca Sangalli

testimonianze di Franco ed Ernestina Fiocca
si ringrazia pet la supervisione Antonio Quatela, storico della Resistenza
Montaggio sonoro Andrea Fantasia



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ISOLAMENTO IN MONTAGNA 23

4/22/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO VENTITRE
Ottavo anniversario di matrimonio caratterizzato da venti forti di (in ordine alfabetico) Bora arrabbiata, Grecale offensivo, Libeccio insultante, Maestrale invettivo, Scirocco stronzo, Tramontana provocatoria, Zefiro oltraggioso. Da oggi fino a data da definirsi il ciclone litigioso concentrerà la sua azione perturbata su tutto l’arco della vita di coppia dapprima al mattino, poi nelle ore serali continuando anche nei sogni. Si prevede che il malumore continui a manifestarsi con temporali e locali nubifragi.
C’è chi è prigioniero nella vita libera perché non si allinea alle convenzioni e chi è libero nella clausura perché si allinea al suo vero sé, ho sentito dire. Io non so dove sono. Sono nella fase del lampo, in attesa dell'arrivo di un tuono devastante.
Dopo pranzo mio figlio accompagna il gatto Signor Cesare Marrali fuori in giardino e lo segue fino al recinto, poi, mentre il felino si allontana e scompare nella bruma, si sporge allungando il braccino per salutarlo. 
“A che ora torni? A che ora torni, Cesare a che ora torni? A che ora torni?” domanda il figlio implorante, quando la coda è solo un puntino appena visibile sulla stradina. Io sono poco distante e lo osservo disarmata, non so se ridere piangere o battere le mani. Per fortuna una vicina, forse estenuata, forse commossa, forse illuminata da un raggio di intelligenza divina lo interrompe affacciandosi al balconcino e rispondendo al posto del pelosetto fuggiasco: “Ha detto che torna alle quattro”. 
Il figlio, rasserenato, ringrazia la signora al balcone e inizia a chiacchierare amabilmente raccontando le peripezie del Signor Cesare Marrali, rilasciando anche dichiarazioni che non si possono definire del tutto rispettose della privacy del suddetto Sig. Marrali.  
Ho ricominciato a vestirmi di viola: qui in montagna avevo portato tutti i vestiti viola dopo la fine di un lavoro, tanto tempo fa. Tempo fa. Il passato mi sembra sommerso tra le foglie, nell’erba alta, confuso tra tanti eventi disordinati, strano che venga fuori con questo colore, che sia riapparso dalla valigia in soffitta. I miei vecchi vestiti viola. Perché amavo questo colore.  Ed ero io. Il colore viola.
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ISOLAMENTO IN MONTAGNA 22

4/19/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO VENTIDUE
Un giorno di litigio grave con il consorte mostra quanto sia impossibile prendere la porta e dirsi: e allora me ne vado! Si diventa delle caricature goffe che nascondono in un piccato silenzio l’inquietante divergenza. Mentre scorro molti testi che devo correggere, mi imbatto nelle riflessioni di una grande poetessa e il prezzo che paga. Un romanzo che avevo già incontrato in adolescenza e che risveglia in me una riflessione sul tema di ospitare nel proprio temperamento aspetti aspri o discordanti, ideali, utopie, cosmi obliqui. Mi viene in mente quel piano del Coin, il terzo mi pare, si chiama “donna conformata” e vi si trovano tailleur, twin set, gonne magliette e abiti di cui non saprei descrivere la singolarità. Penso a me, che non mi riesco a incanalare, termine preso in prestito a una supplente della scuola materna di un bambino che era nella classe di mio figlio: "deve essere ancora incanalato". Mi aveva fatto venire un po’ di brividi. E allora provo un po’ di affetto per questa indole che non sempre ama abbinare i vestiti, che non è andata dall’estetista e si fa la tinta blu da sola, giusto per chiarire che mi pongo un po’ sul limitare della strada, ferma a fare l’autostop. Non so cosa sia la bella apparenza. 
Finisco di leggere un romanzo per lavoro. Mi lascia con molte domande pesanti. Che prezzo si paga a non essere conformati? Sentirsi a disagio nella vita e molto più disinvolti nella solitudine e non riuscire ad avere sudditanza: un sinonimo di egocentrismo, individualismo prima che di essere un individuo che si riconosce in un sistema di valori univoco e sedimentato? 
La video-merenda mi fa mettere a terra i fogli il libro e le elucubrazioni a cui mi sto attaccando sempre più, forse per un aristocratico desiderio di lontananza dal crepitare ininterrotto di opinioni, consigli, sfoghi rabbiosi. Sfuggo il social e cado nella mia mente. So che è un pericolo inclinare troppo il contrappeso in una direzione o nell’altra. Ma chi riesce a mantenere sempre la barra dritta? Stanotte i gatti non ci hanno fatto dormire, e così la testa fa male. Sembra che il Signor Cesare Marrali abbia l’invadenza di un piccolo bullo che deve spostare tutti dai letti, vagare con miagolii satanici e azzuffarsi nelle ore piccole: mi ricorda un adolescente irrequieto. . 
Sentiamo la madre di un compagno di mio figlio, anche lei è in un rifugio fuori città, un posticino piccolo preso in affitto e fuorimano con un giardinetto. Ha deciso di stare ferma dov’è come da consiglio della sua regione. Dopo ormai molti giorni dalla chiusura in quarantena di tutta l’Italia, (da quel giorno ho cominciato a scrivere, non da prima) non ha ancora preso dei vestiti adatti al caldo: ci dice che i siti di acquisto online selezionano i prodotti in beni superficiali ed essenziali e che le mutande per la bambina sono tra i primi, dunque non le arriveranno mai. E che non ci ha pensato, è agitata. Molto tempo dopo scopriremo che arriva un po’ di tutto, giusto se volevi comprare in modo impellente un hang pan (che è un enorme tamburo di rame), forse non ti arriva.
Questa merenda di bambini in Zoom procede deliziosamente, tra boccacce, gatti trascinati davanti a schermi e presentati ad altri gatti. Chissà cosa pensano due felini che si fissano su schermo, tenuti e protesi verso l’occhio del computer da sotto le ascelle. Hanno una faccia mesta e fanno meow. diranno, "Anche tu, vero, fratello? Ci tocca!"
Realizzo che staremo qui fino all’estate. Non lo hanno detto ma, giuro!, lo sapevo. Lo so. E tutto è molto diverso oggi, chissà come sarà l'state davanti a noi: d’estate normalmente qui c’è il viavai dei trekking, le campane sono onnipresenti, talvolta clacson, l’economia turistica, la voglia di essere energici. Sportivi. Montanari che salgono sbuffando con bambini che litigano e gente del paese con l’ Ape Car, una specie di carriola degli anni ‘70 che desidero con brama infinita, capace di sconfinare oltre l’asfalto e salire su per il sentiero fino alla baita dove munger le vacche. chissà come sarà questa estate.

​È incredibile: mi ero gettata a capofitto nell’allenamento a guidare l’auto, ho portato la macchina qui sopra in una notte di febbraio, temendo la neve e guidando fino alle due e mezza, orgogliosa di aver finalmente imparato a tenere il volante senza cedere per due ore e mezza. La macchina. Io. Un mio delicatissimo punto debole che tento prontamente di svalicare, alla ricerca di un modo per recuperare quella fase in cui ci si rende svincolati dagli accompagnatori. L’orgoglio di una nuova epoca: un triplo euforico urlo di gioia all’arrivo davanti al cancello e un mieloso discorso di autoincensamento in previsione di un radioso futuro da girovaga. Non ci mettono tutti in quarantena? Ma se il destino voleva che non guidassi e che mi piantassi in casa, avrebbe anche potuto dirmelo!

E, di fronte alla chiusura dell’inutile su Amazon, è il momento in cui molti si chiedono quale potrà essere la loro ultima essenziale futilità, l’oggetto superfluo del consumismo, la peggiore malattia di cui soffriamo, verso la quale Antonino Zichichi ci ha già più volte allertato. Io penso a un fucile a pallini di plastica, quello del luna park. Ne abbiamo uno giocattolo, un po’ pesante, va bene per sparare ai barattoli con bossoli di plastica. Ci penso perché mancano le cariche. Sarebbe come sentirsi un personaggio dell’ultima stagione di True detective, però senza colpi veri e senza una storia sviluppata in trame temporalmente in differita. O no?

Qui mi devo fermare perché devo seguire per i prossimi giorni con più attenzione gli eventi famigliari. presto sarà mia premura condividere tutti gli altri racconti che ho appuntato.


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ISOLAMENTO IN MONTAGNA 21

4/18/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO VENTUNO
È domenica. C’è un grande evento. Siamo riusciti, in un quartetto di genitori a organizzare una video merenda utilizzando in Zoom, con i migliori amici di mio figlio. Accendo il video e tutti si parlano addosso. Spero finisca presto. Come battuta dico: “diamo il via alle boccacce”. lo fanno sule serio. L’appuntamento dura 30 minuti e loro, per trenta minuti, riescono a fare solo boccacce e versi.
Sono tutti appartenenti al genere maschile.
​ 
I cerbiatti ci chiedono rifugio in casa, non so se hanno un gregge, ma ne abbiamo visto uno passare nel nostro giardino, forse si era perso, forse la mamma lo cerca. Appena vedi un cerbiatto ti viene da pensare a Bambi. Io evito i cerbiattini, mi fanno piangere, ma bisogna ammettere che sono davvero carini. Mia madre ieri notte gli ha lasciato pane e latte e oggi mi ha detto: “Vedi, il paniere è vuoto il cerbiatto ha mangiato pane e latte di notte!”, e se ne va tutta baldanzosa a pulire di nuovo il vetro della stufa. Sinceramente non credo che un cerbiatto sia venuto di notte a mangiare pane e latte… è un’ipotesi davvero poco plausibile, perché di notte? Non mi risulta un animale notturno. Dal momento che mia mamma adora l’idea di aver nutrito Bambi, non la contraddico, ma appena tutti vanno a letto mi apposto con il binocolo del bisnonno, rigorosamente ’15-’18, alla finestra del salotto e aspetto di vedere chi è che viene a cena. Mi figuro che possa essere un gatto selvatico. Cinghiali non ci sono. Volpi sì. Qualche uccellino, molti corvi, dei rapaci, ma anche qualche vicino di casa mannaro. Oppure qualche capra… oppure l’orso bruno, che anche lui non ne può più di gente che va a nascondersi nel bosco per l’ora d’aria e forse se ne è già mangiato qualcuno nel silenzio generale.
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isolamento in montagna 20

4/18/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO VENTI
Osservo il sentiero dal cancello di legno e cerco di prendere un poco d’aria: non c’è nessuno qui sopra, ma ugualmente il limite è invalicabile. Mi viene da pensare: se balzassi fuori sarei nell’immensità… che strano concetto, una parola che ha una consistenza proprio da urlare, mi vedo che faccio il balzo e ululo: “nell’immensitaaaaa!”. 
Mi sembra impossibile che ci sia un pericolo o un divieto. Chi potrei incontrare? Neanche finisco di formulare il pensiero che mi accorgo di tutti gli altri. Pare che una moltitudine di piccoli cappellini abbia avuto lo stesso desiderio di saltellare come camosci sulla nostra testa. Nell’immensità. Non sapevo ci fosse tutta questa gente libera di darsi alla macchia, quante case ci sono sul mio stesso versante della montagna? Chissà se oltre il muro fitto del bosco si cela un frenetico formicaio di uomini semi invisibili, dietro ogni albero una sagoma. Chissà se si rischia di incrociare i fuggiaschi, come partigiani sparpagliati nella macchia, è strano, è come se si rianimasse un quadro del passato. Probabilmente è un’allucinazione ma mi sembra di vivere uno strano contatto tra epoche diverse: sotto gli abeti e accanto ai muschi non si è a rischio come in città, come tra gli scomparti pericolosi di un ipermercato, come durante i bombardamenti. Fare un passo fuori e trovarsi catapultati indietro di settantacinque anni… resisto alla tentazione di scoprirlo, un po’ per rispetto delle regole, un po’ perché sono vigliacca, un po’ perché, infine, ho paura di incontrare altre persone e che sia pericoloso perché i corpi degli altri sono rischiosi. E un po’ perché, se trovassi altri che hanno eluso le regole come me, mi sentirei avvilita. Ci si sente un po’ nudi quando lo specchio si gira verso di noi e, nell’altro, vediamo noi stessi; è come fare una videochiamata e ingigantire lo schermo solo sulla propria immagine mentre il nostro interlocutore viene rimpicciolito. In quel signore attrezzato da trekking, con la sua racchettina, gli abiti tecnici, il cappellino, vedo in qualche modo le mie stesse ideazioni, il surreale convincimento di avere a disposizione il bosco da sola.  
Non si trovano le mascherine. 
Alle tre del pomeriggio ho un attacco di invidia, alle tre e mezza di compassione, alle tre e quarantacinque sono esaltata e alle quattro sono diventata glaciale come un microbiologo. È impossibile decifrare cosa faccia il mio umore, l’interpretazione più accettabile è che sia mutevole come il cielo della Scozia. È mutevole il cielo della Scozia? Possiamo confermarlo? Sono di umore umorale. 
Devo confessare che mi piace l’idea che tutto sia fermo. Devo rompere anche la quarta parete e dire che in effetti sto rimettendo in forma qualcosa che ho scritto un mese fa quando, all’inizio sentivo un piacere strano e inconfessabile di fronte alla paralisi generale, vedendola come una possibilità di riprendere fiato. Ho deciso di inserirmi con questo disturbo dello spazio tempo, un po’ in tema con quello che immaginavo guardando oltre il cancello, oltre la siepe, perché è passato molto, troppo, ed è vero: la mente ha fatto altri percorsi e non tutte le convinzioni corrispondono ancora a quelle di trenta giorni addietro. Eppure per me è rigenerante mantenere la differita e osservare da fuori e da dentro nel passato e nel presente questa incredibile situazione. Torno a un mese fa.   
Oggi in modo speciale mi sento di avere il Covid.
Ho letto che può prendere gli occhi e mi sento strana, ho sonno, sempre di più svogliatezza e pigrizia, sempre fame, poi mi fa male lo stomaco e di nuovo sonnolenza ed emicrania. E non sono la sola. 
Se avessi il virus, mi dico, me ne dovrei fregare di lavoro e scrittura immediatamente. Mi viene un tuffo al cuore: tra sette o otto giorni potrei finire in rianimazione, mi si gelano le gambe all’idea, è mostruoso, davvero sarebbe il caso di mollare tutto per giocare con mio figlio, passare tutta la giornata con lui, tenermelo accanto, certo, senza contagiarlo, ovviamente. Devo mollare immediatamente la futilità di questo momento, le stupidate che leggo online sui runner che possono correre mentre i vicini delatori fotografano chi è in giro, gente che denuncia altra gente, meschinità, piccoli rapporti di potere, chi è amico di chi, quelli popolari e perché io non lo sono, i sommersi e i salvati. Dovrei muovermi ma passo ore a fissare il vuoto. Magari sono minuti, ma chi può contarli? Tengo traccia di ogni piccolo malessere che percepisco, mi faccio l’anamnesi precisa e dettagliata e mi domando: saranno i primi sintomi? Accendo il cellulare. Digito su Google Coronavirus sintomi, leggo che si muore, fino al 90% in più perché tutti sottovalutano i sintomi gastrointestinali, che potrebbe essere coronavirus se hai la congiuntivite, un po’ di mal d’ossa o i capelli unti. È coronavirus se ti esce un brufolo, se ti prude il piede, se fai uno starnuto.  
Ho un attacco di panico, non riesco nemmeno a rispondere ai messaggi al telefono, leggo distrattamente che qualcuno mi ha chiesto se da noi ci sono tanti contagi. Non lo so. Spengo il telefono. Ci sono tanti casi? Non lo so. Riaccendo il telefono e mi faccio forza: nelle statistiche che riguardano la montagna i contagi sono più o meno stabili. Anzi, ci sono poco meno di venti casi.
Adesso è importante smetterla di rimuginare, mentre mi forzo di combattere questo buco nero che mi risucchia a momenti alterni. Multiformi ondulazioni tra up e down: momenti in cui provo sollievo, lontana dal confronto faticoso e dalla pressione sociale, momenti che mi fanno temere per il mio futuro e per quello di noi tutti. Vorrei arrendermi ed essere solo una madre. Ebbene, anche se si tratta di procrastinazione sulla performance, se dimenticherò tutto ciò che abbiamo detto nel brain storming, se non avrò il minimo interstizio nella società di domani, il mio mal di stomaco mi trascina come una nave, mi porta a pensare che devo prendere i pennelli e dipingere con il mio bambino, oppure giocare ai birilli. Lo faccio immediatamente. Tra sette giorni potrei essere ricoverata, salutarlo e non vederlo mai più. Mi viene così tanta angoscia che nemmeno riesco ad arrestare le lacrime, se dovessi morire vorrei solo che lui non ne soffrisse.
Esco dalla porta dello stanzino in lacrime. Lui è lì con il gatto Signor Cesare Marrali, lo abbraccio così forte che quasi lo soffoco. 
“Mamma hai finito di lavorare?” “Sì, oggi sì.”.
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isolamento in montagna 19

4/17/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO DICIANNOVE
L’innalzamento delle temperature ci permetterà di godere qualche piccolo effetto positivo del global warming solo da sopra i mille metri: ricordo che nel grande capannone in cui si teneva un dibattito sul tema, ho aperto bene le orecchie quando Mercalli consigliava di vivere più in alto per sfuggire al caldo tropicale, diceva che sarebbe divenuta una necessità e che migreremo tutti in montagna. Ho pensato. Salirò in alto anche io. Adesso che sono qui, lo aspetto anche perché è una persona gradevole, ci mangerei insieme, insomma. Lo aspetto a cena, ma… che vengano solo alcuni. Se no, come facciamo a godere degli spazi sconfinati? La grande metropoli si potrà anche sparpagliare in tante località diverse, per esempio, perché gli altri non possono andare a rinfrescarsi al mare, dove potranno mettere i piedi nell’acqua, tuffarsi nel mare a febbraio dopo l’orario dello smartworking.  Alla fine di questa pandemia, distribuiamoci bene! Spero che non si trasformi in città anche il bosco accanto, penso, mentre mi manipolo un bottone della giacchetta con un po’ di sospetto. Chi sta parlando dentro di me? È una voce che mi è arrivata dritta e senza filtro, con lo stampino in serie, un pensiero tremendo: l’illusione di poter godere io sola di qualcosa e precluderlo agli altri. Credevo di essere una persona migliore. Procedendo per libera associazione, sembro quel famoso politico che assicurandoci: andrà tutto bene, l’Italia ce la farà, è poi sparito inabissandosi tra i flutti, portato via da un sottomarino tipo Nautilus del capitano Nemo. 
Il tempo interno è sempre più strano, a volte si dilata a dismisura, a volte tra pranzo e cena non passa nemmeno un respiro. Anche fuori il tempo varia in una infinità di modi, sembra quel luogo comune sugli inglesi. Chissà come stanno gli inglesi con Boris Johnson? Sono felice di essere in Italia.  Per gli inglesi il tempo atmosferico varia di ora in ora ed è sempre un argomento su cui innestare una conversazione ricca di spunti. Forse noi italiani tendiamo a parlare del passato idealizzandolo nostalgocamente. Quando a zappare la terra c’era mio nonno io lo inseguivo con una palettina di plastica. Era tutta rotta e tenuta insieme con lo scotch perché mentre lo imitavo e conficcavo anche io il mio ridicolo badile nella dura terra, si spaccava tutta: i miei potenti mezzi non erano all’altezza e la plastica blu si sfasciava contro il ghiaccio. Sono ancora quella bambina che non ha i potenti mezzi ma che fa la sua buca tenendo insieme un po’ le cose coi cerotti. Noto nell’aria già le prime mosche vive, non del tutto rintronate, il sole non è quello del gelo ventoso, è lucente e perforante, come se potesse cuocermi le ginocchia su una bella pietra ollare. È vero, di notte si gela, ma questa palla di fuoco enorme e infinita ogni tarda mattinata mi abbraccia e mi scalda; in città a malapena sapevo che esistesse e che viaggiasse sulla mia testa. La sua traiettoria era immobile, era più facile dire: che stupidi quelli che credevano che fosse il sole a girare attorno alla terra. Che egocentrici. 
A viverla così, sempre con il cielo spalancato sopra la testa e tutt’intorno, ci sarebbe da mettere tutto in dubbio: pianto gli spinaci e l’insalata, e lui è alle mie spalle, costruisco una serra, sbaglio, litigo con la cazzuola e lui si è già spostato in cima alla mia nuca, devo rimettermi al lavoro e lui è già scomparso dietro alle cime. Torno in casa pensando di aver vissuto una giornata, con il fiatone e le braccia indolenzite.  Pazienza se sono pessima, non leggo le bustine con le istruzioni: quale mese, quale anno, come far germogliare, come far crescere, quando innaffiare. Pazienza. Ora mi rimetto alle occupazioni mondane. Ed è definitivo: è il sole che gravita attorno alla montagna. Io sono rimasta ferma nell’orto tutto il giorno e lui se n’è andato, dunque è dimostrato, non sono io che mi muovo!

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA 18

4/17/2020

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Sto esagerando. Se tutti i semi dovessero germogliare insieme mi servirebbero ettari di terra concimata, campi a perdita d'occhio, trattori, motozappe, un camion di concime e due braccianti. Io, incurante, faccio cassettine e metto semi, senza soluzione di continuità, sono inarrestabile, sono divenuta bulimica. Voglio tutte le piante, voglio anche l’ananas del monte! Schiumo in uno strano delirio di torba e sementi. Per fortuna arriva un camion enorme che quasi mi investe. Sono accucciata in terra a infilare con dito i semi nel buco della torba completamente in tranche e non credo mi abbia vista mentre fa manovra. 
E inneschiamo di nuovo la domanda più gettonata dell’epoca pandemica: come la classifichiamo una vittima schiacciata dal camion che fa manovra nel giardino mente infila dita nella torba? È il fornitore del combustibile per la stufa. Ci passiamo il carburante di mano in mano, danzando il Valzer: sono taniche da 25 litri in una grossolana plasticaccia rossa. L’uomo che le porta non è di molte parole, ha un camion ricolmo di taniche rosse, le stesse, come dieci anni prima e prima ancora, forse quando ero piccola lo stesso uomo del Monte, veniva a portare taniche piene. Non ha età. Il camion è lo stesso. È cambiato qualcosa negli anni, forse, nel tipo di carburante che si usa per scaldare, è cambiato l’odore, prima l’aria assumeva un che di pungente e ubriacante, adesso l’aria attorno alla stufa è meno tubo di scappamento e sa più di stalla. E così noi, i nostri vestiti e i nostri pensieri. Ma non è cambiata la tanica, in plastica, tutta rigata, il tappo nero. L’uomo del carburante porta dei guanti spessi, è vestito con dei jeans chiari e una giacca albicocca, un po’ sporca deliziosamente vintage. Non indossa la mascherina. Forse sta pensando che nulla deve cambiare, altrimenti il fuoco smetterà di scaldare e l’acqua di dissetarci. Sa che non siamo di qui, come molte persone che abitano nelle rare case dei dintorni. Per fortuna mia mamma ha allacciato dei rapporti negli anni, altrimenti chissà cosa succederebbe se avessimo bisogno. Nessuno è un’isola, dice anche una persona che conosco. Nessuno è un’isola, ha ripetuto ieri sera mio marito. Lo penso anche io. Però gli scrittori ne hanno inventate tante di isole, circondate dai mari e dagli oceani, hanno sognato come Defoe, una vita tutt’altro che contemplativa ma carica d’avventura, l’isola che non c’è così agitata tra infanzia perduta, ombre, rettili e pirati. E Stevenson non aveva forse dipinto la mappa dell’isola del tesoro sotto al tavolo per far giocare suo nipote e intanto scrivere il suo romanzo? io sono su questa isola deserta che ha sulla cima una montagna altissima a picco e sono sulla punta, completamente ipnotizzata da questo sogno. Nessuno è un’isola, ma tutti possiamo crearcela intorno e fantasticare. Soprattutto oggi, dato che le notizie al telegiornale vanno peggiorando. Sono sempre sconfortanti e sono capaci di focalizzarsi ogni giorno, come se fossero d’accordo, a reti unificate e pareri allineati, su un unico argomento di tendenza. Di tendenza terrificante.
L’Ibuprofene.
​Oggi c’è l’Ibuprofene. Sembra che sia un acceleratore del virus. Lo ripetono alla mattina a pranzo e a cena. Non so se attaccarmi alla tanica di benzina. Vado a letto, tanto sono finita. 
Io ne ho mangiato così tanto di Ibuprofene che avrei potuto farci un risotto con le pillole. È anche per stanotte si condivide il letto con il nostro amico panico. 

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isolamento in montagna 17

4/16/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO DICIASSETTE
Mi trasferisco con tutte le cose di cui ho bisogno per lavorare nella stanza grande. È una camera molto calda e inondata di luce, sono sicura che mi farà bene al cervello. (Questo lo dico io, ovvio). Litigo con tutti, esibisco un carattere orrendo, li faccio sfollare. Era assurdo carcerarmi nello sgabuzzino e vedere l’altra stanza utilizzata solo per poggiare i vestiti, nello sgabuzzino ci mettiamo mio marito. Finalmente la luce. Libero la camera di tutte le cose che sostavano poggiate lì, prendo la mia gatta anziana e mi chiudo dentro. A chiave. 
Mi guardo attorno: che meraviglia, è straordinario: dovevo farlo da subito! Davvero, chissà perché ho aspettato tanto e sono rimasta nell’assurdo a lamentarmi della finestra con vista suicidio: qui mi affaccio al terrazzino, posso contemplare la montagna e nessuno rischia di vedermi se non ha un drone. Non ci sono altre abitazioni in questo angolo, sono tutti sotto di noi. Mi levo la maglia e mi espongo tutta nuda alla finestra. L’ho sempre sognato: “Buongiorno, nessun essere umano!”. 
Metto a frutto lo spazio nuovo e il pensiero.
Provo una scandalosa sensazione di libertà. Mi sono fatta strada sgomitando e ne sono felice, è parte della natura umana? Probabilmente sì. È la parte benigna come direbbe Fromm nell’Anatomia della distruttività umana, non ho fatto male a nessuno, ho solo infastidito e spostato tre vestiti. Gli umani sono feroci. Non me la sento di dare la colpa del male solo alla natura che ci sta distruggendo senza sentimento. Sono stronza anche io.
Vedo un camion salire faticosamente la stradina: lo so cos’è arrivano i cibi liofilizzati militari, li avevo ordinati nella notte in cui ho preso il telefono in un folle risveglio, vorrei seppellirmi. Intercetto il pacco appena viene lasciato nella cassetta della posta, li nascondo con profonda vergogna: non devono sapere che sono stata così imbecille. Anche la signora della casa di fronte avrà formulato la sua rimostranza nel constatare l’arrivo del corriere la seconda volta. Anche il corriere avrà sentito l’odore di curry, verdure disidratate e cipolle secche e avrà pensato. Ma questa è scema, ma è molto meglio la bresaola!
Alla fine in questa casa non riesco a nascondere nulla. Fisicamente non saprei come celare un qualunque oggetto, movimento, bisogno, disturbo, emozione, respiro: è un posto grande ma vige una totale assenza di porte, un ravanare in ogni dove, come i topi affamati in una cantina. Apro il pacco. Ci sono una serie di buste leggerissime da riempire di acqua bollente e lasciar cuocere nel loro brodo otto minuti, il tutto è corredato da piccole immagini che spiegano con la massima semplicità la procedura e da una signora felice, che fa una vita alpina indipendente e solitaria. Come sarà il gulasch disidratato? Che sapore ha una patata asciugata polverizzata e aromatizzata al prezzemolo? Avranno mangiato questo i marines in missione contro i talebani? Il pacco contiene anche altri fogli, come un piccolo opuscolo di istruzioni per la perfetta vita da escursionista e tutti gli attrezzi da non farsi mancare mai, mai, mai se si va lontani su per la montagna. O in guerra. O isolati in una pandemia con il supermercato più vicino troppo frequentato per non aver paura. Le mascherine non si trovano e, quando si trovano, non riparano.
Sono fortunata, se tutta la mia famiglia partisse alla riapertura del confinamento, potrei restare qui anche in futuro, senza muovermi per un mese o più, razionandomi le zuppette americane. Isolata. Senza alcun contatto umano. Sparire in un buco. Girare nuda. Cantare male. Battere le mani quando mi pare. Il pensiero mi pare un po’ allettante. 
Ma dubito che la quotidianità da queste parti sia questo fitto sciame di silenzio che c’è oggi. 
Riallacciandomi al giorno precedente mi domando se non dovrei pensare davvero a questa cosa di piantar patate, cipolle, seminare le zucchine che resistono in altura, gli spinaci. E se dovesse crollare l’agroalimentare? Se dovessimo farci la minestra con queste poche cose che vengono su nonostante il freddo e con le mie scarse nozioni su come si deve piantare a milletrecento metri? E chi raccoglierà i pomodori questa stagione? Io dico che non ci saranno più pomodori! Con questa idea stramba, nel pomeriggio, prima di lavorare, infilo gli stivali un po’ sfondati e mi metto a togliere le erbacce dalla parte inutilizzata da anni del piccolo orto. Per fortuna non mi vede nessuno del vicinato: la mia goffa figura di contadina incapace sarebbe oggetto di dileggio pubblico. Gli occhi degli altri mi mettono a disagio ogni volta che si posano su di me, sia che stia facendo qualcosa che so fare, sia che non sappia da che parte iniziare. Mi vedo sottoposta a un interrogatorio del tribunale dei contadini veraci. I fondamenti! Che cos’è la cazzuola? Mi prenda una cazzuola. Ce l’hai la motozappa? Hai tolto i sassi con il setaccio? Mi viene in mente una barzelletta, guardando questo piccolo fazzoletto di terra, una barzelletta brutta, che diceva che manco ce-ceni. 
Imperversano le dirette sui social e le narrazioni teatrali online, un modo per sostituire quella convivenza sociale che si è persa fino a data da definirsi. C’è una scelta molto ampia, sicuramente qualcuno avrà anche pensato di piazzare una telecamera fissa in casa dalla mattina alla sera e mantenere la diretta fino ai primi d’aprile. Un’esperienza che si deve riprendere costantemente, sinceramente io ci andrei a vedere che fa a casa mio cugino, così tanto per ficcanasare. Non è più esclusiva del mercato pornografico offrire stanze a cui collegarsi con un codice o versando denaro. Sono curiosa, è un fenomeno che mi attira e qualche diretta social è anche davvero bella, ma ho già creato una mia routine, ci ho provato e ascolto a fatica Radio Popolare, i diversi telegiornali che sono d’abitudine per i miei genitori e qualche volta Cappato. 
Scarico Zoom, ma non riesco a mettermi in contatto con nessuno. So che alcuni amici si trovano su questa piattaforma per salutarsi alla sera, roba di pochi minuti, non ci riesco, non faccio in tempo, non va la connessione, mi sento idiota, ho i capelli sporchi, ho paura che la video chiamata porti chiunque dentro casa mia e mi fa un certo effetto trovare naturali questi schermi che ci avvicinano le facce a tal punto da visualizzare l’area irregolare dei nei, guardare dentro nelle narici. Scrutare lo spazio tra dente e gengiva. La distanza tra le sopracciglia. Sono sprovveduta: il trucco deve essere far parte del gruppo in modo costante così da non destare troppe curiosità e, soprattutto, tenere le luci soffuse quel tanto da far sembrare la cosa naturale. Lascio perdere, il programma è sul computer ma per ora non sono pronta. Scappo in sala sono tutti a tavola, ho un ottimo umore senza una ragione precisa… a quel punto, prima del “buon appetito” li guardo seduti corrucciati e mi ricordo che qualche manciata di ore fa, per conquistare la stanza bella, ero stata sgradevole con tutti…
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ISOLAMENTO IN MONTAGNA 18

4/16/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO DICIOTTO
L’innalzamento delle temperature ci permetterà di godere qualche piccolo effetto positivo del global warming solo da sopra i mille metri: ricordo che nel grande capannone in cui si teneva un dibattito sul tema, ho aperto bene le orecchie quando Mercalli consigliava di vivere più in alto per sfuggire al caldo tropicale, diceva che sarebbe divenuta una necessità e che migreremo tutti in montagna. Ho pensato. Salirò in alto anche io. Adesso che sono qui, lo aspetto anche perché è una persona gradevole, ci mangerei insieme, insomma. Lo aspetto a cena, ma… che vengano solo alcuni. Se no, come facciamo a godere degli spazi sconfinati? La grande metropoli si potrà anche sparpagliare in tante località diverse, per esempio, perché gli altri non possono andare a rinfrescarsi al mare, dove potranno mettere i piedi nell’acqua, tuffarsi nel mare a febbraio dopo l’orario dello smartworking.  Alla fine di questa pandemia, distribuiamoci bene! Spero che non si trasformi in città anche il bosco accanto, penso, mentre mi manipolo un bottone della giacchetta con un po’ di sospetto. Chi sta parlando dentro di me? È una voce che mi è arrivata dritta e senza filtro, con lo stampino in serie, un pensiero tremendo: l’illusione di poter godere io sola di qualcosa e precluderlo agli altri. Credevo di essere una persona migliore. Procedendo per libera associazione, sembro quel famoso politico che assicurandoci: andrà tutto bene, l’Italia ce la farà, è poi sparito inabissandosi tra i flutti, portato via da un sottomarino tipo Nautilus del capitano Nemo. 
Il tempo interno è sempre più strano, a volte si dilata a dismisura, a volte tra pranzo e cena non passa nemmeno un respiro. Anche fuori il tempo varia in una infinità di modi, sembra quel luogo comune sugli inglesi. Chissà come stanno gli inglesi con Boris Johnson? Sono felice di essere in Italia.  Per gli inglesi il tempo atmosferico varia di ora in ora ed è sempre un argomento su cui innestare una conversazione ricca di spunti. Forse noi italiani tendiamo a parlare del passato idealizzandolo nostalgocamente. Quando a zappare la terra c’era mio nonno io lo inseguivo con una palettina di plastica. Era tutta rotta e tenuta insieme con lo scotch perché mentre lo imitavo e conficcavo anche io il mio ridicolo badile nella dura terra, si spaccava tutta: i miei potenti mezzi non erano all’altezza e la plastica blu si sfasciava contro il ghiaccio. Sono ancora quella bambina che non ha i potenti mezzi ma che fa la sua buca tenendo insieme un po’ le cose coi cerotti. Noto nell’aria già le prime mosche vive, non del tutto rintronate, il sole non è quello del gelo ventoso, è lucente e perforante, come se potesse cuocermi le ginocchia su una bella pietra ollare. È vero, di notte si gela, ma questa palla di fuoco enorme e infinita ogni tarda mattinata mi abbraccia e mi scalda; in città a malapena sapevo che esistesse e che viaggiasse sulla mia testa. La sua traiettoria era immobile, era più facile dire: che stupidi quelli che credevano che fosse il sole a girare attorno alla terra. Che egocentrici. 
A viverla così, sempre con il cielo spalancato sopra la testa e tutt’intorno, ci sarebbe da mettere tutto in dubbio: pianto gli spinaci e l’insalata, e lui è alle mie spalle, costruisco una serra, sbaglio, litigo con la cazzuola e lui si è già spostato in cima alla mia nuca, devo rimettermi al lavoro e lui è già scomparso dietro alle cime. Torno in casa pensando di aver vissuto una giornata, con il fiatone e le braccia indolenzite.  Pazienza se sono pessima, non leggo le bustine con le istruzioni: quale mese, quale anno, come far germogliare, come far crescere, quando innaffiare. Pazienza. Ora mi rimetto alle occupazioni mondane. Ed è definitivo: è il sole che gravita attorno alla montagna. Io sono rimasta ferma nell’orto tutto il giorno e lui se n’è andato, dunque è dimostrato, non sono io che mi muovo!

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isolamento in montagna 18

4/15/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO DICIOTTO
L’innalzamento delle temperature ci permetterà di godere qualche piccolo effetto positivo del global warming solo da sopra i mille metri: ricordo che nel grande capannone in cui si teneva un dibattito sul tema, ho aperto bene le orecchie quando Mercalli consigliava di vivere più in alto per sfuggire al caldo tropicale, diceva che sarebbe divenuta una necessità e che migreremo tutti in montagna. Ho pensato. Salirò in alto anche io. Adesso che sono qui, lo aspetto anche perché è una persona gradevole, ci mangerei insieme, insomma. Lo aspetto a cena, ma… che vengano solo alcuni. Se no, come facciamo a godere degli spazi sconfinati? La grande metropoli si potrà anche sparpagliare in tante località diverse, per esempio, perché gli altri non possono andare a rinfrescarsi al mare, dove potranno mettere i piedi nell’acqua, tuffarsi nel mare a febbraio dopo l’orario dello smartworking.  Alla fine di questa pandemia, distribuiamoci bene! Spero che non si trasformi in città anche il bosco accanto, penso, mentre mi manipolo un bottone della giacchetta con un po’ di sospetto. Chi sta parlando dentro di me? È una voce che mi è arrivata dritta e senza filtro, con lo stampino in serie, un pensiero tremendo: l’illusione di poter godere io sola di qualcosa e precluderlo agli altri. Credevo di essere una persona migliore. Procedendo per libera associazione, sembro quel famoso politico che assicurandoci: andrà tutto bene, l’Italia ce la farà, è poi sparito inabissandosi tra i flutti, portato via da un sottomarino tipo Nautilus del capitano Nemo. 
Il tempo interno è sempre più strano, a volte si dilata a dismisura, a volte tra pranzo e cena non passa nemmeno un respiro. Anche fuori il tempo varia in una infinità di modi, sembra quel luogo comune sugli inglesi. Chissà come stanno gli inglesi con Boris Johnson? Sono felice di essere in Italia.  Per gli inglesi il tempo atmosferico varia di ora in ora ed è sempre un argomento su cui innestare una conversazione ricca di spunti. Forse noi italiani tendiamo a parlare del passato idealizzandolo nostalgocamente. Quando a zappare la terra c’era mio nonno io lo inseguivo con una palettina di plastica. Era tutta rotta e tenuta insieme con lo scotch perché mentre lo imitavo e conficcavo anche io il mio ridicolo badile nella dura terra, si spaccava tutta: i miei potenti mezzi non erano all’altezza e la plastica blu si sfasciava contro il ghiaccio. Sono ancora quella bambina che non ha i potenti mezzi ma che fa la sua buca tenendo insieme un po’ le cose coi cerotti. Noto nell’aria già le prime mosche vive, non del tutto rintronate, il sole non è quello del gelo ventoso, è lucente e perforante, come se potesse cuocermi le ginocchia su una bella pietra ollare. È vero, di notte si gela, ma questa palla di fuoco enorme e infinita ogni tarda mattinata mi abbraccia e mi scalda; in città a malapena sapevo che esistesse e che viaggiasse sulla mia testa. La sua traiettoria era immobile, era più facile dire: che stupidi quelli che credevano che fosse il sole a girare attorno alla terra. Che egocentrici. 
A viverla così, sempre con il cielo spalancato sopra la testa e tutt’intorno, ci sarebbe da mettere tutto in dubbio: pianto gli spinaci e l’insalata, e lui è alle mie spalle, costruisco una serra, sbaglio, litigo con la cazzuola e lui si è già spostato in cima alla mia nuca, devo rimettermi al lavoro e lui è già scomparso dietro alle cime. Torno in casa pensando di aver vissuto una giornata, con il fiatone e le braccia indolenzite.  Pazienza se sono pessima, non leggo le bustine con le istruzioni: quale mese, quale anno, come far germogliare, come far crescere, quando innaffiare. Pazienza. Ora mi rimetto alle occupazioni mondane. Ed è definitivo: è il sole che gravita attorno alla montagna. Io sono rimasta ferma nell’orto tutto il giorno e lui se n’è andato, dunque è dimostrato, non sono io che mi muovo!
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ISOLAMENTO IN MONTAGNA 16

4/10/2020

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​ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO SEDICI
C’è un gran sole e non nascondo di aver provato un piacere immenso a montare una serra di plastica con mio figlio: ricordo che il nonno la faceva per salvare i germogli dalle gelate improvvise. Non so niente, ma vado a memoria e ritrovo tutto ciò che serve nelle ragnatele della legnaia. È come montare una tenda, ma senza istruzioni, senza camping, al freddo e senza chitarra. Per darmi un po’ di atmosfera canto E un altro giorno è andato di Guccini, spazzando via con il piede dei ragni morti e fingendo di non sentire mio figlio che commenta: “Canta malissimo…”, rivolgendo sottovoce la critica verso le mie abilità canore al Signor Cesare Marrali. Il gatto felice al massimo grado per un motivo che ci sarà ignoto per sempre, si scaglia a capofitto nel cespuglio di lavanda, con un salto felinamente calcolato alla massima precisione. Il punto è come mettere insieme i resti della struttura ideata forse negli anni Ottanta: è una lotta con i vecchi paletti per tenere il telo sollevato da terra, poi il grande foglio di plastica pesante deve essere ancorato al suolo tramite dei pietroni scovati qua e là nel prato. Semplice, avventuroso e molto pre-Quechua. Ci sono dei grossi chiodi arrugginiti da piantare dentro con la mazza. Ma quanto è bella la mazza? Che altro non è che un enorme martellone in metallo pesante, che maneggio cantando: Negli angoli di casa cerchi il mondo/nei libri e nei poeti cerchi te, in perfetto stile quarantena continuando sulla stessa canzoncina in loop. Mi sento potente come il nano del Signore degli Anelli. Avanza un sacco di materiale da giardinaggio da quando qui era in piena attività mio nonno e la sua organizzazione precisa per far andare la casa con il ritmo delle stagioni. Qualcosa che oggi è stato abbandonato, come la vecchia sega elettrica circolare che prendo in mano per un attimo, solo per sentirmi un po’ Faccia di Cuoio della saga Non aprite quella porta. Mi vedo mentre roteo la sega nel tramonto insanguinato e mi spavento un po’. La rimetto al suo posto con una scrollata di spalle. Ora che so dov’è, prima o poi mi sveglierò alle sei del mattino attivandola e aggirandomi per casa con uno o due metri di prolunga elettrica, chiameranno il Trattamento Sanitario Obbligatorio e mi cattureranno staccandomi la spina della sega e dicendomi: “Signora, ma non si vergogna? Venga che le diamo del Valium”, “Signora, la smetta di cantare Guccini agitando un’arma, che tanto guardi, il tempo andato non ritornerà!”. Così, mestamente, mi rimetteranno sul divano a rilassarmi guardando in televisione i grafici dell’avanzamento della pandemia. Non ho nemmeno la stoffa per essere una che viene colta da un serio raptus omicida.
Intanto lascio perdere la sega circolare e provo a vedere se riesco a diventare una montanara, facendo di necessità virtù. Mio figlio mi ricorda le favole di Esopo che gli leggevo quando era più piccolo: a lui piaceva “Topo di città e topo di campagna”; ecco: per ora sono solo la stravagante copia di una boscaiola (per altro del tutto deludente), sotto la quale si nasconde una topa di città col carnet della metropolitana in tasca. Io ci provo, mi accuccio a terra, in punta di piedi, poggiando i glutei sui talloni con un risparmio di spostamenti quasi altezzoso: se non arrivo alla paletta, scavo con le mani, se la busta non si apre e necessita delle forbici che sono in cucina, la strappo con i premolari. Cataloghiamo vasetto, semino e piantine di vario tipo. Avevo portato con me prima di partire delle bustine di sementi stravaganti: tipo la carota viola, la zucchina gialla, le rape blu, la patata dolce, quella arrabbiata, il sedano ficcanaso, la rucola incallita da fare invidia all’Esselunga e al suo copywriter. Mio padre commenta con mia madre che magari avessi piantato verdure normali! Io rispondo per le rime, sfoggiando con orgoglio la tanto declamata frase sulla bellezza della particolarità, l’orgoglio di essere diversi e la noia dell’omologazione; che se siamo ridotti in questo modo è solo colpa del mondo globalizzato. Poi, mentre nessuno mi ascolta ormai più, che non ho nessuna qualificazione scientifica per poter intervenire in ateneo-casa-montagna, apro una digressione sulla diversificazione del grano dall’antichità a oggi e argomento pedantemente, producendo il mio tipico borbottio di sottofondo in segno di protesta. Mi balena un dubbio importante: ma, in effetti, non dovrei forse ordinare online verdure normali e già piantate, semplicemente da mettere al sole e innaffiare ogni tanto? Ecco che ritorna in me la topa di città che vorrebbe ordinare su Amazon. E mentre squadro con fastidio l’abbandono che ho intorno, le sementi dai nomi impronunciabili, il disordine sgraziato di buste di plastica nell’erba, i segni del mio fallimento come agricoltore, il colorito di mio figlio che felicemente soffia nelle bolle di sapone e che è già annoiato dalla piantagione di rarissimi ortaggi arcobaleno che faranno indubbiamente schifo, mi coglie l’infinito.
Poi succedono due cose irreali: mentre sto zappando con lo stesso molle movimento di polso di una che tira i dadi sul tavolo del casinò, sento ronzare un moscone terrificante e su di me incombe l’ombra oscura di un mostro. Alzo timorosa lo sguardo.
È un drone.
Se non fosse stato annunciato al telegiornale, avrei pensato a un giocattolo, alle riprese della webcam del centro meteorologico, a un elicottero in miniatura, a uno di quei giocattoli telecomandati dai bambini dei vicini che viene a rovinare la mia privacy. No, è un drone della finanza venuto a controllare se anche qui e nel bosco ci comportiamo bene. Ho l’impulso superficiale e paleolitico di impugnare fionda e sasso, poi penso ai due poliziotti soli qui in montagna: magari sono stati mandati qui, lontani dalle famiglie. Magari hanno pescato totani da qualche parte fino a ieri, abituati alla calorosa estroversione del Sud e invece stanno qui, isolati, tristi, a gelare con noi, che invece abbiamo scelto la casa nel bosco proprio per introversione patologica. Forse, uno dei due poliziotti, nostalgico, stanco della solitudine, sta un po’ divertendosi a sbirciare cosa facciamo qui in alto, di fianco al crocicchio che fa partire i sentieri. Ha ricevuto fresco fresco dalla Protezione Civile questo drone, questo elicottero-baby munito di telecamera che gli mostra la libertà e il verde degli abeti. Che poi il verde dei prati è di centinaia di gradazioni diverse in base all’altitudine, all’umidità, alla luce che si rifrange. L’intrepido finanziere si sarà goduto l’esperienza di avere una veduta panoramica sui prati, i pendii opacizzati dai rovi, le macchie boschive illuminate dagli aghi splendenti dei Deodara. Poi avrà pensato di passare a trovarmi. Non voleva mettermi in soggezione, credo. Certo, da adesso che gira il drone forse dovrò pensare di smetterla di fare il saluto alla montagna sporgendomi a torso nudo dalla finestra. Pazienza. Già non avevo più l’età.
Non credo che il signor drone possa sparare anche pallini su me o sul Signor Cesare Marrali per abbattere i fuggitivi; si annoiava e si è soltanto fatto un giro fino a su, per rifarsi gli occhi con il sentiero che via via si fa sporadicamente innevato. E in effetti è meraviglioso. Da piccola mi chiedevo, ingenuamente, come fosse vivere qui, andare a scuola qui, restare sempre col prato sotto i piedi e il busto proteso a guardar la valle. Venivamo solo a trovare la nonna d’estate. Anche da ragazza mi turbava l’idea che non si potesse scegliere di abitare qui, dimenticare se stessi e la pressione sociale, vaporizzandosi nel panorama.
Mentre sono immersa nei pensieri, dopo che il drone se ne è andato da un pezzo, sento una macchina. Oggi che succede, mi dico, rischiando di tirarmi la mazza sulla rotula. L’auto, con le sue quattro ruote motrici, frena fragorosamente accanto al nostro cancello: più in alto non si può andare senza rovinare le fiancate con i rovi. Una signora abbassa un vecchio finestrino a manovella cigolante che è ancora più sinistro del drone-macchina e si sporge a urlare dal finestrino: “Nonno! Allora! Tredici messaggi e non rispondi? Ti continuo a chiamare! “
Il nonno replica dalla finestra, affabile: “Madonna t***a, porco d*o!”.
Non ha altro da dire
La signora non sembra minimamente alterarsi di fronte alle potenti bestemmie del nonno, che naturalmente echeggiano nella valle: “Allora rispondi, no? Se stai bene…”, lo rimprovera. Il nonno non dice nulla, la signora neanche. Si limita a riavviare il motore, percorrere qualche metro, fermarsi e affacciarsi di nuovo per commentare con la vicina che abita nella villetta di sotto: “Sì, è il nonno. No, non vedo miglioramenti”.
Dapprima penso si riferisca alla malattia, poi realizzo che forse sta parlando del carattere del nonno, un po’ suscettibile. A quanto pare, non è migliorato con la quarantena, e meno male che dovremmo tutti trovare una nuova spiritualità. Comunque, a suo modo, il nonno l’ha trovata una solida spiritualità, l’ha condivisa con tutta la vallata e dimostra di stare bene.
E, per un attimo, tutti ci uniamo a lui solennemente.

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isolamento in montagna 15

4/3/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO QUINDICI
Inizia una nuova settimana, non le ho contate, quante sono? È metà marzo, la quarta settimana che siamo qui. Mi limito ad annotare il fatto per non rischiare di scivolare nello scarico del water mentale del facciamo le previsioni. Mi alzo di scatto. Mi lavo. Ascolto la radio mentre sono in bagno: sono solo dieci minuti di notiziario. È inevitabile: mi preoccupo per la settimana, per il futuro, per la vita, per la morte, per la sofferenza. Strano pensare che sia lunedì. Presa da una specie di obbligo esistenziale consegno il lavoro che mi è stato chiesto: ci sono molte idee, sono ordinate, le ho finite di domenica perché integro usando il weekend le ore che non riesco a finire di fare giorno per giorno. Da una parte non so esattamente che senso abbia continuare a interfacciarmi con gli altri: ho paura di perdere la chiarezza, i perché lo fai, di non riuscire a prevedere lucidamente le direzioni che prenderemo. Ho paura di perdere tempo. E allora mi sembra essenziale vivere il giorno presente. Stare un anno intero in montagna a guardare tutto quello che cambia intorno, non parlo di quando arrivano i saldi o iniziano a vendere le fragole. C’è una nebbiolina splendente che sventola sfumando la neve con le nuvole basse e il cielo. La vista è gratificata dalla profondità di questo spazio, il vero privilegio per un umano. Il resto dei sensi è ubriacato dall’ascolto della temperatura atmosferica, dal nutrimento, dai rapporti tra di noi. Ci alleniamo ad ascoltare l’altro o rassicurarlo che lo stiamo ascoltando. Importantissimo anche l’addestramento a non sentire: mentre scrivo ho come sottofondo qualcuno che suona la tastiera (modalità violino), nella stanza contigua mio padre guarda le video notizie ad alto volume, in lontananza la fioca voce di mia mamma al telefono che raffronta i dati e le terapie con un’amica e collega mentre stira. È un’immagine dissonante: invece di confrontarsi su quale temperatura del ferro sia più adatta a stirare i colletti, si stanno scambiando idee e dati per le terapie antiretrovirali, quali antibiotici e con quale posologia, che livello si sperimentazioni ci siano e che meccanismo di infiammazione si scateni a livello polmonare. Strano, perché la natura dalla finestra si presenta avvolta in un silenzio disumano e, in casa, al contrario, pochi umani ammassati in unico luogo sono in grado di produrre una concitazione acustica inconfondibile. Tipo lo sciacquone chiassoso del water: si finisce inevitabilmente per contare quante volte è stata azionata la potentissima leva dello scarico del bagno. Non provo alcun fastidio, mi diverto a constatare che se per qualcuno non c’è nulla da fare, per noi le giornate sono un tumulto: chiamate imperative, emergenze assolute, attività scolastiche elaborate, abbinare vocali a stampate di schede in power point, elettrodomestici che si rompono, la routine dei riscaldamenti quando scende il freddo, della legna per cucinare, le necessità dei gatti, le necessità di ciascuno. E tutto da dentro, come la confusione mentale di un instabile nevrastenico. È raro che il richiamo arrivi da fuori e se succede è un evento che mette tutti in allarme, come l'elicottero che mi è passato sopra la testa mentre ero nel prato, la voce della signora che abita nella strada di sotto, il suono del vecchio campanello, che fa proprio un isterico driin in stile anni cinquanta, provocando una specie di sbalzo cardiaco che spero non sia capace di assassinare uno dei miei genitori. Si accorre alla porta. Si prende in mano la maniglia, poi ci si ripensa e si mette il guanto e una sciarpa in faccia. Per un attimo penso che sia uno scherzo di mio figlio, tanto mi sono disabituata all’esterno. Anzi, a direi il vero vorrei proprio che fosse uno scherzo del figlio e mettermi a giocare e basta. Caccia al tesoro! Lanci sul letto! Apro, con la faccia della mamma in rimprovero pronta a dire: “Non farmi scendere per niente…” ed era il corriere. Non c’è nemmeno il rischio reale che ci si possa fare una risata per una gaffe, “Oh mi scusi, sa, credevo fosse mio figlio e stavo per sgridarla”. Non incrocio mai il corriere. Chi fa le consegne nelle case ormai non scambia parole: viene a portare la spesa bardato e avvolto nella tuta da lavoro, fugge come un fulmine prima che arrivi l’inquilino, rimette in moto frustando i cavalli. Per qualcuno stiamo trascorrendo Giornate senza senso, come un mare senza vento, parafrasando Guccini. Non lo so. Ancora non mi sento soffocare davvero, come mai? Forse non mi manca tutto della vita di prima, non mi mancano quegli angoli di giornata in cui lo scorrere del tempo era accompagnato da attività che svolgevo per procura, che svolgevo in uno stato di ipnosi, spinta da un andare avanti che non sempre è una scelta. Riesco a ritirarmi per riordinare la lista delle cose da fare e mi fermo. Ma fare cosa e per chi? Mi trovo a guardare indietro con occhio critico le persistenze di vuoto che riempivano il tempo con questioni di nessuna importanza vera, privandomi di secondi, minuti, giornate intere. Facendomi sorgere un’ansia crudele. Risucchiata in una specie di tubo aspirante troppo stretto per poter contenere tutti gli enormi sogni di una che è nata il giorno di Natale.
Cosa avrei fatto oggi nel mondo civilizzato pre-virale? 
Guardo il calendario. Oggi avrei dovuto presentare il romanzo in una scuola di Pavia. Mi dispiace non esserci, era una di quelle attività che mi sembravano andare nella direzione più sintonica con il senso che voglio dare alla vita, lo penso sinceramente, dato che ho passato in rassegna tutte le zone d’ombra. Quanti progetti sparpagliati in ogni campo! Mi vedo in una specie di ideale fotografia, sono impegnata, tengo la barra della vita con due mani e tutti gli sforzi possibili, cercando di andare dritta, ma, infine, mi sembra sempre di stare in mezzo a un mare in tempesta. Crollo. Mi rialzo. Mi sconquasso di domande esistenziali. Devo imbastire meglio la trama del mio futuro, sono come una stilista che fa abiti per millepiedi. Forse devo provare a seguire la corrente?
Forse devo assecondare i venti?
Forse mi devo intestardire di più?
Forse, per il momento, non importa.
 

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA 14

4/2/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO QUATTORDICI 
Un sole meraviglioso.
Videochiamata con i parenti in Francia, mi mancano, ci mancano, finalmente li sentiamo. Avevo atteso con una certa frenesia questo contatto con persone dotate di buon intelletto che vivono fuori dalla nostra nazione. Li vedo nel salotto, sembrano allegri: per loro inizia oggi, non sanno che in casa e fuori voleranno coltelli nel giro di poche ore. Sono lì, belli tranquilli a cucinare gli épinards e a programmare la spesa online. Si prenderanno a schiaffi anche i francesi, come tutti noi. I lombardi non hanno niente di strano: anche da loro girerà l’invito a resistere, che alla fine si tratta solo di passare qualche giorno sul divano. Forse sui social imperverseranno gli attori in diretta che leggono la Recherche di Proust anziché la Storia della colonna infame di Manzoni. E sarà lunga, molto lunga. Quanto può durare una diretta dalla quarantena?
Faccio un bagno, c’è un unico boiler che può raggiungere gli ottanta novanta gradi e, di solito, appena finisce di riempire la vasca in ceramica freddissima, l’acqua è a quaranta gradi. Quando entro è a trenta gradi, appena mi insapono inizia a gelare seriamente. È terribile, ma lavarsi è un privilegio. L’acqua calda in cui di tanto in tanto decidevo di passare un’ora o più a leggere indisturbata per levarmi le preoccupazioni dal corpo è un vecchio ricordo, qualcosa che appartiene alla vita da single, nemmeno più alla famiglia, qualcosa che questo boiler elettrico del millenovecentocinquantacinque non permetterà. Poco male. 
Incastrata nel mio quadratino osservo la bella scrivania di lusso in stile liberty, coperta da un centimetro di marmo verde scuro, la cassettiera con i classici cinque elementi: due cassettini più piccoli in verticale a sinistra, uno centrale lungo, due in verticale a destra. La sedia imponente. È poco importante? In quarantena a fissare una scrivania dei primi del Novecento e pensare: avrò già osservato con cura i quadri? Ne conto sette. Due sono le nature morte, c’è una Madonna e altre piccole cornicette. Un numero infinito per una cella di un metro e mezzo/due per due e mezzo. La prossima settimana potrei osservarne uno al giorno e magari descriverlo: sarebbe una bella occupazione quando mi viene in mente la caducità della vita. E poi potrei passare a guardarmi alla specchiera che sale su dalla scrivania e dentro alla specchiera potrei ricominciare a guardarmi negli occhi. In realtà mi accorgo che a poco a poco, negli angoli remoti della mente, avevo già raccolto i materiali che ora devo solo scrivere. Come si dice? Quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando. 
Alle due di notte mi piglia malissimo: mi sveglio inquieta e in cinque minuti compro su Amazon i cibi liofilizzati per i militari. Dopo aver fatto COMPRA, ho capito che ho fatto la cazzata che hanno fatto tutti, ma è stato un gesto impulsivo. Troppo tardi. Mollo il cellulare e mi addormento di colpo. 
 

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA 13

4/1/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO TREDICI 
Scendo in farmacia con la tuta spaziale, incuriosita da questa nuova normalità che mi spinge a notare, nel vuoto del paese, le gradazioni di grigio delle pietre, la temperatura esatta dell’aria che respiro, la percentuale di inclinazione di una strada in discesa mentre ritiro il farmaco per la pressione. Il parafarmacista (il commesso della parafarmacia) mi avvisa che non ci saranno rifornimenti molto presto per via del virus. Mi vien voglia di mettermi il Braulio negli occhi per disinfettarmi.
Nevica. È bellissimo ma torno. 
Mi chiudo nel mio stanzino del lavoro. Il letto sul quale mi siedo con un cuscino sulle cosce e il computer poggiato sopra è davvero uno spazio angusto, sembra di essere nella cuccetta notte di un vecchio treno. Se penso che qui ha dormito per anni il badante di mia nonna, che fumava alla finestrella guardando il cedro dell’Himalaya e pensando a quando faceva il marinaio, vengo travolta da un lungo momento di nostalgia. 
È pronto, viene urlato in due occasioni principali, quelle dei pasti, per il resto riguarda solo altre sporadiche secondarie caffettiere sparse nelle 24 ore.
Pizza per tutti. Pizza e delirio, ovvero: non era pronto, era una trappola. Bisognava tirare la pasta, e mentre impugno il mattarello si alternano varie voci…
Hai messo il pomodoro? Perché usi la salsa fatta da me? La mozzarella prima o dopo? Qualcuno ha rinfocolato la stufa a legna? Il forno è sceso. Metti legna grande, mettila piccola, la stiamo perdendo, ha ripreso, sta raggiungendo i quattrocento gradi, a che temperatura fonde il ferro? Facciamo delle spade, già che ci siamo. 
Questi i dialoghi che si diramano nella disordinata realtà quotidiana che è diventata già abitudine quasi per tutti. È una specie di ritorno all’interiore, come essere in un grande utero tutti a mangiare, scossi ogni tanto o poco da qualche dissapore. Non so se prima o poi qualcuno di noi esploderà, non sono allenata, non ho mai avuto la curiosità di guardare per più di cinque dieci minuti gli esperimenti televisivi in merito alla convivenza nella casa e sono sprovvista di nozioni in merito a chi veniva buttato fuori dagli altri e perché. Non mi interessava, invece adesso mi sarebbe stato utile aver studiato le dinamiche da osservatrice esterna. Me lo merito, così imparo a fare la snob con i programmi di tendenza. E niente, la sera leggiamo Il richiamo della foresta e mio figlio mi chiede se moriremo anche noi. Rispondo di no, negando completamente la realtà.
Però… anche ne Il richiamo della foresta muoiono tutti ‘sti cani! Non ho mai letto un libro con una strage di cani così tremenda: alla fine quando la slitta precipita nel fiume ghiacciato e ne muoiono quattro in una riga sola, mi viene da ridere e cambierei la trama. Ma come? Anche nella versione di Geronimo Stilton muoiono? Non mettono i braccioli e raggiungono l’altra riva per poi fuggire verso la primavera? Io volevo che il topo per bambini edulcorasse un po’, se no a questo punto, se non mi svia dai concetti inaffrontabili, la prossima volta faccio meglio a leggergli direttamente Jack London. Infatti. Perché no? Quanti libri mi resteranno da condividere con la sua infanzia? Vanno scelti molto bene. 
Mi prende la paranoia della scelta del libro essenziale e del cammino del tempo che mi scaglia a tutta velocità verso l’inevitabile e verso la separazione. Penso di essere fortunata a essere costretta a condividere con lui tutto il tempo insieme, non solo tempo di qualità ma proprio quantità e vicinanza. Alla peggio sono dietro a una porta a tre quattro metri da lui, sento che queste distanze accorciate gettano una specie di profondità in più nel nostro rapporto. Questo è un lusso di cui possiamo tranquillamente lamentarci.  
Faccio le tre di notte per vedere un notiziario speciale. C’è un conduttore grasso che parla solo con uomini grassi. A parte uno, credo abbia scelto solo esperti grassi, chi con la cravatta tesa sulla pancia, chi con il bottone che tira. La cosa che fa strano è vedere le case della gente nei paesi, la maggior parte ha un che di architettura anni ’50, credo. Mi sembra che ognuno debba identificare chi lo rassicura e poi, dopo aver tirato un bel respiro, aver ascoltato una meditazione guidata verso la serenità e il sonno, riprendere lo smarphone a tradimento e iniziare a caso a leggere fake news che ci trascinino nel terrore. E non chiudere occhio. Lasciatemi questa libertà. 

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA 12

3/31/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO DODICI 
È metà marzo, all’incirca. Mi sveglio senza alcun pensiero preciso, dopo un sonno profondissimo e ristoratore ho una gran voglia di una bella spremuta d’arancia; la montagna mi accarezza i sogni, il rumore della stufa a pellet è in sintonia con il mio respiro, scarica legnetti tamburellanti, li incendia, la fiamma emana un tono di luce aranciato che sembra di stare tra gli Hare Krishna, il calore della stufa asciuga l’aria ma avvolge tiepidamente. Con un gesto automatico afferro a tentoni il telefono dal comodino, premo sull’applicazione gialla e ascolto Radio Pop, nel frattempo leggo da dubbi siti notizie che anticipano futuri scenari di selezioni delle merci e blocchi alle vendite di beni superflui di ogni tipo. Sono ancora tranquilla. Penso serafica che riuscirò a fare a meno di ordinare quella resina sintetica che pubblicizzano sui social e che viene usata per fossilizzare fiori trasformandoli in ciondoli trasparenti. Riuscirò anche a privarmi delle gomme da masticare, sorrido beffarda, sono perfettamente in equilibrio: non ho urgenza di impossessarmi di un nuovo paio di ciabatte. Tutto a posto per i beni superflui. Ma… e il settore sali e tabacchi? Mi levo le cuffiette subitaneamente, intercettata da un atroce presentimento: potrebbero finire le sigarette, potrebbero finire le sigarette, ed è arrivato il momento di rivelare che sono una fumatrice notturna maledetta e incognita: quando va via il sole io mi trasformo in un vampiro e aspiro. Non accetto che mi si dica che la quarantena sarà una buona occasione per smettere di fumare, ho trattenuto aggressioni fisiche nei confronti di chi ha provato a dirmelo in questi giorni. Sono già passata alle Iqos, ovvero la cura del tabacco mentolato cotto al vapore, come le verdurine Bonduelle: è il massimo che posso fare in quanto al preservare la mia salute. Secondo una convinzione del tutto paracula che mi sono inventata, la Eets al mentolo può sanare il polmone disinfettandolo dal virus; la mia idea si basa su una precaria deduzione: uno dei pazienti più conciati di questo periodo non era forse un salutista allenato? L’unico contagiato di cui ho conoscenza è uno sportivo con tendenze vegetariane sui sessant’anni. Ho bella e pronta la mia teoria da tossica, concepita a uso e consumo della mia dipendenza fatta lì per lì su due casi e senza approfondimenti: fumare mi tutelerà. 
Proseguo le letture e mi arresto alcune manciate di minuti su diversi articoli, prestando attenzione ai contenuti che mi saettano davanti agli occhi. Sembra che io non sia l’unica a costruire teorie utilitaristiche basate su pochi dati, guardando ancora in rete leggo molte elaborazioni speculative raccapriccianti, mi preoccupa la miriade di teorie costruite su niente, simili alla mia ma molto più dannose: leggo di alcuni che sono contenti di questo sterminio per via della sovrappopolazione, sono contenti perché ci liberiamo degli anziani, sfiorano degli orridi di pensiero molto vicini all’eugenetica, giustificano la mortalità come una specie di colpa di tutti quegli individui poco attenti, poco furbi, poco cauti o dotati di un fisico debole, affetti da altre complicazioni o vizi malsani. 
Devo fumare, altrimenti mi spavento. Ma quanto avremo da fare quando rientreremo al lavoro? Dovrò recuperare l’allenamento alle sofferenze della dialettica per far fronte ai testa a testa che inevitabilmente capiteranno anche con questo genere di arguti testardi capaci di vincere un dibattito con il puro approccio competitivo. Magari hanno letto una semplificazione dei trentasei approcci di Schopenhauer per aver sempre ragione o le cronache delle gare di cocciutaggine di Sartre riportate dalla de Beauvoir. Sono stata già traumatizzata a settembre con il ritorno alla realtà dopo la pausa estiva, uscendo pigramente da quel rilassante tempo fermo estivo utile a prendere una giusta distanza da tutte le cose, adesso viro pericolosamente verso una specie di autoisolamento che rifiuta o sfugge gli inviti in videochat. Penso. Rimugino. 
Intanto, bisogna dire che sono ancora a letto, le coperte sulla testa, più o meno paralizzata, che mio figlio si è piazzato accanto a me abbracciandomi e respirando piano ed è meraviglioso, che la casa ha cominciato ad accendersi e prepararsi alla colazione. Stamattina ho bisogno di andare a fondo, leggere opinioni, cercare un’ancora di salvezza: mi distacco un po’ dai post generati dalla voce del popolo, mi accosto a cercare pareri di intellettuali e scrittori importanti. Accusano l’umanità tutta, che si arrabatta all’inseguimento di una vita di consumi ma non ha coscienza della propria presenza reale nel mondo. Sì. Sembriamo non avere contatti con le cose. Le cose, invece, ci toccano, ci stravolgono, potrebbero rovesciarci e intubarci, le cose. Adesso ne abbiamo contezza. L’abbiamo toccato con mano. Sarà del tutto vero però insistere sul fatto che viviamo increduli di avere una diretta responsabilità sulle sorti di noi stessi e del pianeta? Che siamo rane bollite? E, se fosse vero, era davvero necessario questo virus a farci pensare che lavarsi le mani con il sapone dopo aver pisciato è buona abitudine a prescindere dal coronavirus? Cambieremo? Cosa ci succederà, poi? Riusciremo a mettere in piedi la Ricostruzione, la stessa che stavo portando avanti come reading prima che tutto questo accadesse? Questi pensieri li ho tutti insieme, al risveglio, congiuntamente al timore-panico che chiudano i tabaccai, come quando da piccola tentavo di scrivere le prime poesie con la Olivetti del nonno, avevo tante idee e schiacciavo cinque tasti in un colpo solo. Mi sembra che tutti abbiano un po’ reazioni simili alle mie: all’allarme rispondono precipitandosi in modo allarmato e scomposto. Come per la faccenda della vitamina C. ecco perché ho aperto gli occhi desiderando aranciata. In vendita non ci sono più nemmeno gli spremiagrumi, figurarsi le più note marche di pasticche vitaminiche: è come se tutti si fossero destati con l’impulso di riprendere la vecchia Olivetti del loro nonno e si fossero incastrati contro la striscia di carta carbone, insieme ai tasti, premendo dieci, sette, cinque lettere contemporaneamente. La vendetta si è scatenata, dopo una lunga repressione, il giudizio universale è comparso giocando un po’ a mettere sottosopra i nostri formicai. Se penso alle memorie che ho ascoltato nelle lunghe domeniche a pranzo dai nonni, da dopo la guerra non era mai capitato nulla di così estremo… Il pianeta, nel suo agire incontrollabile, ci stava a guardare, trattenendo un intenso desiderio di rivalsa contro l’uomo. Ci ricorda che non è un concetto così utopistico quello di essere potenzialmente tutti sterminabili. Fino all’estinzione completa. E non è un film o un libro. Succede.
E con questo pensiero confuso, tipico sintomo di astinenza da nicotina, decido che oggi sarò insieme alla massa (a debita distanza) e correrò a fare incetta di Eets blu e di questa introvabile vitamina C che la fantomatica dottoressa Cesira consiglia vivamente attraverso il vocale arrivato da più parti tra ieri notte e stamattina. Sarà una bufala, ma io, come tutti gli altri, disciplinata e priva di adeguati mezzi di difesa intellettuali in campo medico, mi pongo come obiettivo della giornata la scorta di arance e tabacchi. Appurato attraverso una telefonata al “mercatone” che le arance, bene rarissimo solo per la giornata di oggi, verranno spedite dalla consegna a domicilio, vengo riportata con violenza al pensiero catastrofico primario. E i tabaccai le faranno le consegne a domicilio? No che non le faranno: devo impugnare il coraggio a quattro mani e andare a prendere le sigarette. Mi serve una mascherina. Non me la sento di rubare per le sigarette l’unica che mia mamma ha di scorta dal kit ospedaliero. Vago per la casa ancora addormentata ma agitata, mi sento come Robinson Crusoe naufrago, affamato, in cerca di una noce di cocco. Devo fumare ma proteggermi dalle microscopiche particelle infette indesiderate per poter così aspirare volontariamente le particelle tossiche che mi sono scelta da sola? Guardo nell’armadio dei prodotti sanitari senza trovare niente di utile, però… qualcosa ci sarebbe: ci sono i Lines Seta Ultra a quattro strati, ma certo! Probabilmente sto delirando per l’assenza di tabacco, comunque mi appiccico un Lines Seta Ultra in faccia, funziona, miglioro il tutto aprendomi le ali sul naso e sul mento. Così incollata esco di casa con un’autocertificazione di uscita per motivi di necessità assoluta, compilata con furia delirante, e mi dirigo, stressata, fino al tabaccaio guidando la macchina che so manovrare a malapena. Scendo come se stessi facendo i primi passi su un pianeta alieno, terrorizzata che un bozzolo di Alien si schiuda accanto a me; ho i guanti da giardinaggio e una sciarpa, naturalmente, perché mi impongo di nascondere l’assorbente con le ali, pura idiozia, anche perché inizia a scollarsi per il vapore del respiro. Troppo tardi, adesso sono nel parcheggio, non posso levarlo e gettarlo, non ci sono nemmeno i cestini della spazzatura. Porto il cappello e gli occhiali da sole: do l’idea di una rapinatrice appena uscita da una rissa da bar. Si aprono le porte a vetri automatiche del negozio, entro e con mia enorme meraviglia vedo che i pacchetti sono lì, a rassicurarmi che nulla cambierà, che non dovrò disintossicarmi. I tabacchi se ne stanno belli ordinati, in fila, su scaffali riforniti. Eroica, indico il bene prezioso di cui necessito a una commessa che pare abituata a vedere in questi giorni illogici gente conciata molto peggio di me. Non dico una parola di più. Solo… “grazie”. Compro quattro pacchettini di Eets blu, pago in contanti. Da fumare prima di dormire, moderatamente, senza esagerare, nascosta nel box. 
Prima di decretare le contingentazioni di prodotti sul mercato avranno pensato: tra i beni essenziali lasciamo le sigarette, se no si crea lo scompiglio più completo. Le sigarette e la crema anticellulite.
 


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isolamento in montagna 11

3/30/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO UNDICI 
Oggi decidiamo di prendere cinque metri di distanza dalla casa in cui siamo stipati assieme a una comunità di felini anziani e di umani anziani. Entrambe le razze ci mettono violentemente a disagio. Padre e madre sono instancabili, trovano ogni genere di passatempo pericoloso, come, nell’ordine: rinforzare l’armadietto del bagno posizionando orizzontalmente un’asse di legno affettata con la sega elettrica circolare, vagare con il trapano rintronante per fare buchi in una parete dietro la quale si nascondono cavi elettrici di cui non abbiamo più la mappatura esatta, arrampicarsi per fare il cambio delle lenzuola in bilico su vecchie sedie di metà del Novecento e altre scomodissime occupazioni.  I gatti, al contrario, permangono in stallo nella stessa posizione per lunghe ore, osservandoci in modo polemico. Ci scrutano immobili per ore. È inquietante. Dato che c’è il sole, faremo il pranzo nell’erba. Mentre mi entusiasmo all’ebbrezza dell’avventura, mio marito risponde a una chiamata di lavoro e restiamo tutti fermi per un turno. 
Ricominciamo un’ora dopo, quando il marito esce gloriosamente dall’ufficio (il bagno) a call terminata, gli occhi luccicanti, tirando lo sciacquone. Oggi, dicevo, abbiamo un programma, finalmente: faremo un bel pic-nic raggiungendo magari la solitaria area pic-nic del bosco. Guardiamo i decreti, non è vietato.
Constatiamo con disappunto che ormai, si è fatta l’ora in cui la mattina è già finita, la passeggiata richiederebbe due ore e il figlio ha fame. Beh, andiamo alla panchina a metà sentiero, dico io, a mangiarci almeno un panino. Tre panini! Irrompe mio figlio. Tre panini, accondiscendo. Scendiamo in cucina solo per constatare che mia madre ha congelato il pane. Tutto il pane. Congelato. Abbiamo due alternative e le decisioni vanno prese in fretta: il pane possiamo scongelarlo oppure farlo. Con un calcolo rapido e sagace realizzo che il pic-nic è comunque fregato, ma non mi arrendo perché mi sono intestardita in modo irrazionale, c’è un residuo genetico calabrese nel mio DNA e credo che abbia preso il controllo della sala macchine. Quando mi intestardivo mia nonna diceva che era per via degli antenati calabresi e così mi sono convinta, comunque, idea! Pancarré! Lo nomino con un ghigno e le vene del collo rigonfie, “Pancarré!”, carica di orgoglio fiorito senza una ragione precisa, come se da quella mia scelta dipendesse l’esito della nostra improbabile sanità mentale residua.
Preparato un pranzo che neanche un autotrasportatore (senza offesa per la categoria) si mangerebbe all’Autogrill, con mortadella buttata in due fette di schifido pane in cassetta che sa di cloro, raggiungo, con aria festosa esagerata, il marito e il figlio che nel frattempo sono stufi di aspettarmi, detestano i miei ormoni scombussolati e non hanno più voglia di stare con me. Con il malumore per mano, armati di bastoni da trekking, facciamo la famigliola in vacanza raggiungendo l’estremo limite del giardino. Una fotografia tragica che riassume in un’unica cornice tutta la disperazione che sta vivendo l’Europa in questo preciso momento.
Arrivati faticosamente al prato, quasi a due, tre minuti di cammino dalla porta di casa, ci siamo abilmente seduti a mangiare nel letame steso di fresco, sotto lo sguardo orripilato dei contadini del luogo che nel campo accanto stavano concimando l’erba come da usanza di stagione. Un cane ha scavalcato il recinto ed è venuto più volte a leccarci con la sua gioia scodinzolante. 
“Voglio un cane”, annuncia mio figlio. 
Sipario. 

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isolamento in montagna 10

3/28/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO DIECI 
A me sembrava già sufficiente la giornata di ieri, invece no: e non sono le misure ancora più restrittive il vero pandemonio. Tra supermercati ingolfati, spesa online sempre più complicata, lezioni per bambini da scaricare stampare e abbinare a vocali inviati per messaggio, capita che mi venga offerto un lavoro. Mi chiedono se posso. Dico “Beh, sì”. Sto scrivendo tutta rannicchiata, la schiena incagliata nell’angolo della stanza, appollaiata su un letto piuttosto duro, completamente in ombra. Questo è lo spazio che ho trovato, il lettuccio addossato a una parete color crema, due quadri di nature morte a olio di pittore sconosciuto dalla firma orgogliosamente marginale. Nella camera accanto sta lavorando il marito, risuona la voce prima in inglese poi in italiano, si dispiace che qualcuno sia crollato. Di coronavirus? Penso. No, ascolto meglio, si riferisce alla connessione. È crollata la connessione. E per fortuna, sono fatalista, se ci isoleranno davvero io lo accetterò e ne trarrò un risanamento mentale disintossicandomi dall’idea di essere sempre reperibile. E il letargo? Non lo vogliamo considerare il letargo? Che si mangerà per cena? Avranno bisogno di me per accendere la cucina a legna? Sarà pieno finalmente il boiler dell’acqua calda che devo lavarmi i capelli? Come saranno i numeri dell’epidemia oggi? Che faranno i miei? Che farà mio figlio? Che faranno al governo? Perdo il focus ogni due minuti ma non posso permettermelo, ho tempi contingentati per essere creativa, devo approfittare prima che il tempo scada. Mi sforzo di tornare a me stessa. Non ho parole per descrivere come sono ridotta, ormai vesto abiti larghi in più strati e coperte buttate sulle spalle, qui fa freddo e per non seccare troppo l’aria con la fiamma della stufa a Pellet mi copro con ogni tessuto spesso e potenzialmente riscaldante che trovo in giro, non importa se è il ritaglio di coperta del gatto, me lo metto addosso con tutti i peli che anche quelli aiutano a trattenere il calore. La mia faccia non mi convince da qualche giorno, mi sono lasciata alle spalle (forse per sempre) i lineamenti gradevoli del viso che tentavo di tenere in buona forma nonostante tutta la mia fisionomia stia pericolosamente sporgendosi oltre la soglia della giovinezza. Sembra che io abbia messo i capelli nella lavatrice in centrifuga. La pelle inizia a macchiarsi. Il mio colorito ha dei riflessi che oscillano tra il verde petrolio e il verde bandiera nonostante l’aria buona di quassù. Probabilmente è perché non teniamo conto del monossido di carbonio che stiamo respirando ogni notte in cui lasciamo la stufa accesa. Oggi è arrivato un pacco di mutande basic nere e pantaloni larghi di felpa, neri, per me è la tenuta da lavoro, la divisa da casa. Dobbiamo disinfettarci tutti, a partire dall’ ingresso, dobbiamo scartavetrare la carica batterica delle soglie, insistere a scrostare le orme del tempo dal linoleum degli anni ’50, disattivare l’infettività dell’aria, dobbiamo farlo subito, insistentemente, tutti insieme e ciascuno a casa sua.  Devo ringraziare che al risveglio da sogni inquieti non mi sono trasformata in un enorme scarafaggio e che lo stanzino mi sia di riparo e non sia una prigione come per molte altre donne. 
Guardo la finestra che dovrebbe aiutarmi a rigovernare i pensieri, c’è il Cedro dell’Himalaya, il mio grande riferimento spirituale: ancheggia imponente e brillante al vento sottile della sera, ne osservo la cima alta che si staglia nel cielo, i rami rigogliosi e danzanti, il tronco… ma mio figlio, perché è in giardino in ciabatte? Non doveva fare i compiti? Non importa, li farà l’anno prossimo, se saremo vivi e se esisterà ancora una società occidentale. Mi rimetto sul mio lavoro che non ha nulla di tangibile, che ne so: non igienizza una finestra, non mette su un muro di mattoni, non fa neanche lievitare il pane, sono terribilmente mortificata. Calpestando il linoleum (sono quattro passi dalla porta alla finestra), mi accorgo di quanto sia sporco il microhabitat dal quale tento di esercitare una cosa mentale, sì ma che cosa sto facendo? C’è un obiettivo? Siccome non lo so stamattina ho provato a farmi aiutare dal grande creatore di Senso: all’APP STORE. Ho scaricato un’applicazione per evitare la procrastinazione, ci sono dei gatti e con quattro ciotole di pappa. Ogni 24 minuti, se hai lavorato bene, puoi riempire la ciotola di pappa con un click e il gatto è felice, se non lo hai fatto il gatto si lagna che non gli dai da mangiare. Bene. Io ne ho appena ucciso uno, me lo notifica il telefono all’istante. Vorrei progettare un oggetto e guardare che ne uscirà fuori, non so, magari un frullatore, non so, una lampada. Mi sistemo alla scrivania ma non va bene, alla porta arriva un nuovo suono. Mancava al campionario: è un suono legnoso, ripetitivo, come se ci fosse un alveare di api ronzanti, però è più intermittente, no, più assillante. Stavolta capisco meglio: un graffio, un’unghietta contro il legno, non è lo sbattimento dello scopettone. Non è lo spry detergente. Giro la chiave, apro. È il Signor Cesare Marrali. Il gatto. Stanotte ha svegliato tutta la famiglia perché non è castrato e attorno alle 3 di notte sembra che abbia tentato di accoppiarsi con la mia, che non era d’accordo. C’è un rovescio della medaglia anche a non venire castrati, uno si crede di potere fare qualunque cosa. Glielo dico: “Signor Marrali! Ljuba ha 18 anni. Vuol dire che è la tua bisnonna, la smetti di urlare dalla voglia di accoppiarti che poi le prendi?” Lo faccio entrare. Entrambi soffriamo in ogni centimetro cubico vuoto di questo stanzino woolfiano. Lui si lecca le balle e si appallottola sul micro-letto della “celletta tutta per me”. Ascolterà la conference per il nuovo lavoro tangibile e -forse - se faccio bella figura, remunerato. 
Ma come siamo diventati schiavi e schiavisti di noi stessi senza avere nemmeno un padrone? Io so già che lavorerò lo stesso e sarò la più severa giudice del mio operato, senza nemmeno sapere se lo sforzo vale il compenso. Questa voce della coscienza è assordante, ma come zittirla in una giornata senza eventi? Quando non hai accadimenti di particolare rilievo non fai altro che ascoltare dentro e fuori, la voce dentro e i suoni fuori. Evito di rendere la convivenza ulteriormente insopportabile. Sento grattare di nuovo lo stipite. Apro. Questa volta è la mia gatta, quella anziana. Quella che Cesare lui ha tentato di farsi nel cuore della notte. Parte una zuffa. Peli, soffi, miagolii infernali, i due gatti sono trasfigurati in due serpenti a sonagli: anche i rapporti tra animali sono così complicati che non mi sento di intervenire in modo logico per migliorare la situazione, vado di istinto. Prendo Cesare Marrali per la collottola, lo butto fuori e mi tiro sul letto la mia gatta anziana, che è incazzata nera e soffia anche a me. In pochi minuti si sistema a guardare fuori dalla finestra, c’è un davanzale interno in legno di una decina di centimetri; lei pare accomodarsi  bene. Vede qualche corvo appollaiato sul pino e gli rivolge dei versi da gatta. Tipo: “se non ci fosse questo vetro spesso tu saresti già morto”. Da dietro la porta, il gatto che ho buttato fuori inizia a fare “meeeooow meooow” come fosse un neonato in preda alle coliche. e, in questo clima sereno, dalla stanza accanto si sente chiaramente: “Hi, Alan”, come se Alan fosse dall’altro lato della montagna e non all’altro capo del telefono. “Hi Alan!”, mi pare ci sia l’eco: “Alan… Alan!”, ti salutiamo tutti da questa valle, mandaci delle arance, che sono finite. Perché è successo anche questo: era uscito un post che parlava degli effetti salvifici della vitamina C, il giorno dopo non c’era nemmeno più una Zigulì in commercio. In un periodo di paura senza freni, tutti sono corsi a svuotare gli scaffali prendendosi le arance e lasciando al loro posto delle inquietanti cassette vuote: le rinomate arance di montagna paiono avere qualità vitaminiche inossidabili. In compenso nessuno aveva toccato i pompelmi… forse i pompelmi non sono ricchi di vitamina C? non lo so e non lo cercherò su google. Mi sto distraendo di nuovo. Perché continuo a distrarmi? “Meooowww” fa il gatto fuori, mentre la mia invece insulta ancora un pettirosso o una ghiandaia, non so niente di uccelli, io, e fa un verso tipo motore della Fiat Panda ingolfato. In questo ambiente sonoro pacifico, mentre Alan viene più volte salutato nella call della stanza accanto, cerco di trasformarmi in una persona assennata che lavora con appuntamenti organizzati e una certa quiete lavorativa. 
Saluto imitando una calma da guru indiano. A fine serata mi aggiro dubbiosa nello stanzino: quattro passi fino alla porta, dietrofront, quattro passi fino alla finestra; così per cinque, sei volte, poi… lo vedo: è un orrendo corvo nero e si è piazzato proprio sul ramo davanti alla finestra, sfacciatamente, come se non ci fossero degli animali feroci ad abitare questa casa. Ha ragione la mia anziana gatta. Mi siedo accanto a lei, dietro al vetro e, senza emettere suono, solo con il labiale, in accordo con il felino, lo mando anche io a fare in culo. 

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isolamento in montagna 9

3/27/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO NOVE 
È ufficialmente pandemia. Non c’è niente da ridere: noi qui avevamo sottovalutato tutto, le informazioni erano troppo sconnesse, comincio a ricostruire chi ho incontrato l’ultima volta, a chi ho avvicinato la faccia, in quali bar ho preso il caffè. Non mi viene in mente nessuno, per fortuna (in questo caso) sono piuttosto antisociale. Dalla presentazione del libro sono passati più di quattordici giorni e comunque anche in quella situazione ho mantenuto la mia distanza confort e niente effusioni ravvicinate. È paura lo stesso, anche se per temperamento tengo normalmente una distanza di due metri da chiunque, mi ritrovo a immaginare scenari catastrofici, anche grazie ai servizi che scorrono in televisione. 
Ci sono delatori da tutte le parti, si va in cerca dell’infame italiano untore e viziato. Si mette alla berlina un presunto tipo di italiano sconsiderato che ha messo a repentaglio la sanità nazionale, si pescano colpevoli da ogni parte, così possiamo distogliere l’attenzione dalla vera infamia: finanziare la sanità privata e depauperare gli ospedali pubblici. Un tempo erano il fiore all’occhiello della nostra regione. 
La seconda tragedia politica è che ci si sta organizzando per trovare il modo di recuperare i libri dei bambini rimasti a prender polvere nella scuola ora vuota. Devo ammetterlo, si sente un che di definitivo nel ritiro di tutto il materiale scolastico, un presentimento di fine, di chiusura drastica che nessuna rassicurazione può mitigare. Immagino la scuola tra un numero imprecisato di anni, la classe di mio figlio è ancora lì a prender polvere con i suoi quaderni sullo scaffale, il colore delle copertine mangiato dal tempo, le pagine rinsecchite, l’incarnazione del peggior immaginario post apocalittico: mi vengono le lacrime agli occhi. Ha qualcosa di simile al Titanic, sommerso con i suoi tesori e le cozze a riprodursi in migliaia di neri bivalvi tra una forchetta d’argento e una collana. Forse però le cozze non abitano gli abissi e io devo farmi forza e smettere di perdermi in fantasie devastanti. 
E noi siamo fuori da Milano. La coraggiosa mamma di una compagna di mio figlio è disposta a prendere anche i nostri libri. Sono commossa e felice: la calligrafia del mio bambino e i suoi disegni non prenderanno la polvere dei secoli, non vivranno l’abbandono, non si inabisseranno e nessuno ripescherà tra molto tempo qualcosa di suo per appropriarsene. E non ci cresceranno sopra le cozze. Inizia oggi il calvario della seria iscrizione ai servizi di consegna a domicilio, della scelta di quello migliore, della disputa tra me e mio marito tra chi deve iscrivere chi, con quali dati, con che carta di credito e quanto spendere, come dare le disposizioni e quando, spedizione rapida? Andiamo in macchina? Moto? Vettura a cavalli? Drone? Ma a che servono i libri di scuola se sta già leggendo Il richiamo della foresta? A che serve la lezione di scienze sulle radici se ieri abbiamo piantato carote, erbette cavolini, pomodori e zucchine gialle?
Eppure ho l’idea che dobbiamo mantenerlo conformato: se ci prodighiamo nella didattica alternativa fai da te, ci trasformiamo nella famiglia anarchica di 'Capitan Fantastic' (senza Viggo Mortensen, però!).
Naturalmente parliamo per un tempo infinito di niente, trovare la soluzione migliore è divenuta più una sfida personale, una competizione di genere che ci vede come nemici instancabili. Non combiniamo nulla per ore ma decidiamo di andare all’aperto. Lasciamo i miei genitori in casa che stanno smontando il neon della cucina per vedere se riescono a fulminarsi e rinfocolare la diatriba di questi giorni: “Sono morti per coronavirus, di coronavirus, a causa del coronavirus? A causa di eventi correlati al coronavirus? Come li conteggiamo due anziani fulminati mentre cambiano un neon con una scala traballante?”. 
Dopo aver scelto e pagato un corriere qualunque, forse il peggiore e il meno conveniente giusto per non portarci davvero la diatriba avanti fino a sera, alla fine andiamo a fare la tanto agognata passeggiata sul sentiero sopra casa. Nutro la segreta speranza di riuscire a scovare un angolo di limpida pacificazione con la natura, una tregua dall’incessante e ripetuta percezione della catastrofe mondiale. Vorrei un po’ di pausa dalla comunicazione reiterata della nostra morte certa e vorrei trovarla mettendomi in cammino verso l’alto. Non dobbiamo salire molto, già dopo la prima curva c’è un posto che amo tantissimo, un panorama magnifico, capace di dissipare qualunque pensiero sgradevole. “Venite a vedere che panorama!” esclamo con gioia in piedi sulla cima di ciò che rimane di una chiesa rotta e sconsacrata. Mentre guardo le vette innevate, i ghiacciai che resistono ancora lassù, scontrandosi con il cielo assolato, tutta la catena montuosa stagliata davanti ai miei occhi come un ventaglio dalle punte aguzze, mentre mi inondo e divoro l’immaterialità di questo spazio, mio figlio ha preso in mano (con i guanti) la zampa di un caprone. Dallo stinco allo zoccolo nero.
Ripeto: mio figlio ha in mano una zampa pelosa staccata di netto con tutto il suo zoccolo da un caprone. Una zampa grossa, una zampa che pare viva e che mio figlio agita in aria, manco fosse una sequenza di un film dell’orrore o una ricostruzione storica del Malleus Maleficarum. Cosa ci riserverà questo straordinario martedì dopo i resti di qualche rito satanico? Ipotizzo che siamo inciampati nel bivacco di un lupo. Mio marito butta lì che magari, invece, è stato lasciato da un cacciatore di frodo oppure da un pastore autoctono che ha litigato con una capra capricciosa e le ha tranciato una zampa anteriore. E se fosse ciò che resta di un rito satanico? E perché invocare Satana, poi,? C’è già il virus, non state a scomodare il demonio. Ma perché devo pensare male, magari è più semplice: forse la capra si è tolta una zampa perché le dava fastidio, come una scarpa stretta. Magari trotterellando non si è accorta di aver perso un pezzo. Sì. È la versione migliore. 
Guardo mio figlio, gli faccio gettare l’arto animale a terra, confisco i guanti che più tardi brucerò nel camino, lo spalmo di Amuchina che non si sa mai e decido di spiegare così la stramberia al bambino: “Il caprone stava brucando l’erbetta quando ha sentito dei rumori e, nell’andarsene via in tutta fretta dalla sommità della chiesa rotta, ha dimenticato una delle quattro zampe. Non preoccuparti, ne ha altre tre. Vedrai che è felice.” E anche noi lo siamo. 
A me, per oggi, sembra sufficiente. 

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA 8

3/26/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO OTTO 
Un ottimo risveglio con il buon caffè di mia mamma è quello che ci vorrebbe; una delle belle novità della convivenza ritrovata! Prima di scendere, di abitudine, è il momento dell’accensione del cellulare, sei secondi dopo aver acceso la luce. Noto con sorpresa che ci sono diverse chiamate perse da un numero che non conosco, un numero che mi ha cercata con insistenza. Ritenendolo un fatto strano, ma gonfia di speranza, faccio l’errore di richiamare subito per capire se per caso si tratta di una succosa notizia di lavoro, un premio letterario, la vetta di una classifica, un ammiratore, una meravigliosa notizia dal mondo esterno.
No. È il corriere di una nota ditta di consegne. Deve avere alcuni problemi in questo periodo, come non capirlo, lo sento stressato, accavalla le domande, sta facendo spedizioni in posti dove non era mai stato e neppure sapeva esistessero forme di vita. Non mi ha trovata, non trova casa mia, non ho la cassetta della posta, non sono del luogo, lui non è del posto, non ha mai sentito parlare della mia via. (Per inciso, il poveretto ha ragione, in effetti la strada è asfaltata da pochi anni, prima era di sassi.) 
Mi fa capire che sta tornando indietro. Non sono del luogo, è vero, sono di città, in città e in provincia sta dilagando questo morbo terribilmente appiccicoso ma, anche se laggiù è durissima, noi qui siamo sempre in Lombardia: non possiamo spostarci da casa! I miei pacchi resteranno in giacenza in una città a un’ora e mezza da qui che non posso raggiungere perché qui è zona rossa. Io provo sempre un senso di colpa gigantesco con le forze dell’ordine, mi sembra sempre di aver fatto qualcosa di male e che mi scopriranno, inizierei a impappinarmi e a balbettare. Sono tre anni che sto studiando Kafka e so cosa succede nel Processo dalla prima all’ultima riga; io mi comporterei esattamente come lui, anzi, peggio, mi sento già dire: “Vado a recuperare dei pacchi postali che il corriere, dato che non trovava la strada di casa, dato che è una strada nuova, dato che prima era inesistente, dato che…” Non può funzionare: ho già preso una multa al secondo “dato che”. Mi sono pugnalata da sola senza lasciar neanche il tempo alla polizia di dirmi se ho torto o ragione. Non posso andare alla sede del corriere. 
Mi sale la disperazione. Ci sono momenti in cui bisogna essere reattivi, momenti come questi, io e il corriere riusciamo a raggiungere un accordo: gli invio la mia posizione con Google Maps mettendomi davanti alla cancellata. Sono scesa in pigiama e pantofole, sotto la neve, i piedi che affondano. La posizione corrisponde all’indirizzo che ho scritto sul sito, ma adesso è corredata di numerini, che saranno, immagino, le coordinate GPS. Il mondo, ora, sa dove mi trovo: ho attivato il localizzatore, ho rinunciato alla privacy, un satellite mi ha tracciata e infilzata dalla punta del cranio alla terra su cui cammino, trasmettendo l’esatto numero di casella della scacchiera del mondo su cui sono poggiate le mie fradice babbucce di pelo, conquistate dal nevischio. Non mi tingo di nero i capelli (solo di blu), ma dall’alto, se avessi il problema della ricrescita che lamentano alcune amiche in questo periodo, magari mi fotograferebbero il grigiore avanzato e io ne sarei imbarazzata. Magari. Non so perché lo penso, mentre il vero problema è che sto prendendo la polmonite anche senza bisogno del virus. Il corriere adesso mi risponde su whatsapp, anche lui prova la stessa rivelazione astronomica che sto provando io, siamo due persone ora, due contatti in confidenza al di fuori dei nostri ruoli di Ricevente del pacco e Portatore di pacchi: appare la foto di un signore gentile sorridente appoggiato alla parete esterna di una casa color crema. Non è più anonimo, anche se sul mio telefono è salvato come CORRIERE (nome ditta), e non lo sono nemmeno io. Ora mi scrive addirittura messaggi personali: scrive che non vede il mio numero civico. Glielo fotografo, con tanto di neve sopra e intorno, glielo invio. Mi richiama, è agitato perché la strada gli sparisce davanti al camion, naturale, ha ragione, non è giornata: è che c’è la neve. 
Concordiamo che non posso aspettare fuori all’aperto nella neve come Jack Torrance nel labirinto dell’hotel, se no mi ritrova con il cellulare in mano, ibernata. Verrà un altro giorno. Formulo un piano: nella prossima spedizione ci sarà anche una cassetta della posta con porta pacchi a prova di distanziamento preventivo, così il corriere potrà metterci i pacchetti senza avere contatti fisici con me. Chissà se ha provato lo stesso terrore che ho provato io, come una specie di collisione tra due meteoriti nello spazio. Non so se è una soluzione ragionevole, ma per David Lynch non farebbe una piega e io, sveglia da pochi minuti, in stato confusionale, davanti a un cancello innevato con un pigiama di quando avevo 16 anni in pile blu con raffigurazioni silvestri, sono riuscita a raccogliere solo questa quantità di sagacia. Sono sicura di non aver reso l’idea, ma io, prima di questo covid, sono sempre stata una che associava l’isolarsi in montagna a una specie di desiderio vitale. Salire fino ad arrivare in cima, essere fortificati, aprire la finestra a torso nudo, le braccia appoggiate agli stipiti e guardare la cresta e l’immenso spazio che ci separa, fino a dimenticarsi di tutte le miserie ombelicali che ci affliggono. Invece mi trovo conciata che neanche il peggior stereotipo di sciatteria, allarmata come una marmotta per un corriere che mi sfugge via con un pacchetto che neanche mi ricordo… ma cosa conteneva? Cosa di così essenziale conteneva? Torno a casa muovendomi come una semicongelata, con la stessa malagrazia di una pigna che precipita sul vialetto. Raggiungo la famiglia radunata per la colazione e prendo il pentolino dell’acqua bollente del the direttamente dalla stufa a legna a trecento gradi senza presina. Con un’ustione di terzo grado che nascondo con leggiadria, faccio colazione con rinnovata disinvoltura. Brucia mostruosamente ed è la destra. Con la sinistra rovescio metà dei cereali sulla tovaglia, lo yogurt mi si sbrodola sulla maglia e mi spalmo del miele sulla confezione di pancarré ancora sigillata dalla plastica. Io così: se mi sveglio male sono spacciata. Sono spacciati tutti. Attacco briga a caso con il marito, sono intorto marcio perché ho consumato tutti i giga della connessione guardandomi Il racconto dell’ancella. Oggi l’imperativo categorico è scrivere il mio romanzo: annuncio solennemente che mi chiuderò in una stanza a chiave e non dovrò essere disturbata per ore. Esco che sembro la signorina Rottermeier nel pieno dei suoi giorni ruggenti. Prima, però, impugno una patata sbucciata trovata in dispensa per calmare i dolori dell’ustione, l’unico rimedio certificato e di sicuro successo. Con la patata tra le mani mi chiudo a chiave nello stanzino piccolo e buio dove di solito ci sono le valige. C’è un letto e una scrivania e lo spazio per stare fermi incastrati a guardare mezzo pino dalla finestrella e pensare alla morte. Sono sicura che ce la farò, anche senza stufa a olio, con il freddo che mi prende i piedi e il palmo della mano che si spella. La sofferenza è un motore dell’arte, è immenso sentire quanta contraddizione ci possa essere nell'intercapedine tra il brivido e l’ustione, tra la depressione e l’ipomania. Sento già l’ispirazione cavalcarmi la mente e il pensiero spostarsi più in alto, scansando comodi rifugi e proiettandosi verso il senso dell’umanità, ovvero: perché mi sono alzata dal letto?
Sul serio, a quasi quarant’anni, qual è il mio scopo in questo mondo?  
Forse ho la febbre. Fisso il computer, ma niente: ascolto solo i battibecchi. Ci si confronta su quanta glicerina debba essere diluita nell’etanolo procurato di straforo dalla farmacista del paese per riuscire a produrre un disinfettante che non corroda le mani. Ma chi se ne frega, cosa vuoi che sia avere la pelle un po’ irruvidita: io alla mia mano destra ci ho già rinunciato! C’è un virus. Nevica. Le mascherine sono terminate. Il cellulare ronza come impazzito per le notifiche. Il figlio con la sua innata ironia sta di nuovo imitando il notiziario e parla del presidente del consiglio che lancia la diretta. Lo ascolterei per ore, è meraviglioso. io guardo con insistenza una stanza a caso e considero tutto quello che diceva Virginia Woolf riguardo ad avere  una stanza tutta per sé. Infine, con un’esclamazione chiassosa, sento dire che si è fulminata la luce al neon della cucina. I negozi sono chiusi. Non abbiamo candele. Resteremo al buio. 
E poi? Non avevano anche liberato gli orsi un anno fa? Sam Raimi avrà scritto La casa in una situazione di questo tipo? Come gli sarà venuta in mente la strega tumefatta che sbraita dalla cantina? Aveva anche lei una botola tutta per sé? 
Da qui in poi arrivare a sera è una passeggiata: scrivo una riga ogni due ore ed è brutta, passo cinquantacinque minuti per volta ad avere l’ansia perché ho scritto solo una riga brutta, penso ossessivamente a come cuocerò la patata che ho usato per calmare la scottatura. Mi accorgo di essere congelata. Annuncio solennemente che ho deciso di piantare lì a riga quattro per accendere il caminetto. 
Il figlio è felicissimo che io voglia fare con lui un’attività per bambini. Raggruppiamo tutto il necessario: fiammiferi, diavolina, segatura intrisa di kerosene, pigne secche, pezzi di cassette della frutta, legnetti e legna di pino piena di schegge, un residuato bellico inesploso e dei proiettili del quindici-diciotto. Esagero? Non voglio rischiare di perder tempo, la fiammata deve salire potente e in fretta. E mentre cerco di capire se faccio prima a fare una bomba di carta di giornale con la segatura oppure se ci conviene partire da diavolina infuocata con pigne secche a presa rapida, mi accosto al vuoto del camino e sento una voce che recita il Credo. Io e il pargolo ci guardiamo. Infilo la testa nella fornace (che, ricordo, è pronta a incendiarsi alla prima scintilla). Ed è così che vengo naturalmente a scoprire che, per un sofisticato sistema di areazioni, siamo collegati con la Chiesa o con qualche altra casa di gente che prega. Non è follia: avviso tutta la famiglia e tutti vogliono accertarsene, dapprima sono riluttanti, poi mettono tutti la testa nel caminetto: è vero! Si sentono le voci! Si prega! Intanto nel braciere è già posizionata la palla di kerosene e a mezzo metro dalla bocca del camino c’è un piccoletto che sta seriamente esercitandosi ad appiccare la scintilla a dei fiammiferi. È mio figlio, che sto trascurando subito dopo avergli messo in mano la benzina. Chi potremmo carbonizzare per primo tra noi cinque? La sera scende così, senza vittime, ma con grandissime riflessioni sul senso dell’umanità ovvero: perché mi sono alzata dal letto? 
 
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isolamento in montagna 7

3/25/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO SETTE 
Dal momento in cui ho realizzato che sarei rimasta qui con tutta la famiglia a far andar la stufa a legna almeno una settimana, sono passati, diciamo, sette giorni. Forse di più. Non ho nessuna certezza. 
È la festa della donna, ci consigliano di stare in casa. No, stavolta non solo noi donne. Dobbiamo stare in casa tutti e, già che ci siamo, dato che è la festa della donna, abbiamo tutte noi la grande opportunità di mostrare finalmente come si indossando i guanti di lattice per utilizzare i prodotti igienici senza corrodersi la pelle, come sanificare il water e, finalmente, una ghiotta occasione per dilettarci nel passare gli stracci per la polvere assieme ai maschi, con i quali condividere lo sport dell’annacquare il disinfettante per superfici nel secchio e passare lo straccio, operazione tramandata per linea femminile attraverso l’RNA dai tempi del togliere le ragnatele alle caverne. 
Bello. Un otto marzo molto particolare: non è un otto marzo con il pugno chiuso in manifestazione a riappropriarci di uteri e scrivanie, ma un otto marzo a schiavizzare (chi ha saputo coglierne l’opportunità ne avrà goduto di grande piacere) i compagni maschi in casa, munirli di patine e mascherine antipolvere e invitarli a prodigarsi nel lavoro di cui noi deteniamo i vertici, in cui noi siamo in cima. Oltre qualunque soffitto di cristallo, e se è di cristallo, è di Boemia ed è quello del lampadario della trisavola con le gocce sfaccettate da spolverare. Certo, senza generalizzare: io, ad esempio, non so davvero passare la giusta quantità di cera sul parquet e se ci provo uccido la gente, che va giù in caduta libera al primo passo falso, quindi non è che se sei donna sei esperta, si sa i soliti luoghi comuni che fanno costume. 
Nella notte fughe di notizie e fuga dalla Lombardia: si vocifera che siamo stati messi in quarantena. Il marito sottovaluta: “ma figurati se fanno una così così, ma tu sai che crollerebbe tutta l’economia". Ha ragione, ho penso. Mi sono appropinquata al giaciglio con atteggiamento dimesso, in stile “scusate se esisto”, per poi, alle due di notte, a decreto firmato, riprendermi, svegliarli tutti, gatti compresi, mostrare la notizia che confermava la chiusura della Lombardia e recitare, in modo volutamente petulante: “ve l’avevo detto, ve l’avevo detto!”. 

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA 6

3/22/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO SEI
Oggi c’è un sole che davvero è meraviglioso, sento il senso di colpa grave di non lavorare in un giorno lavorativo, ma posso farcela a superarlo, in virtù di una situazione meteorologica paradisiaca. Mi siedo in giardino e mi immagino di andare a sciare.
Sono sulla pista e mi sento la sciatrice più triste, più ermetica, più scostante di sempre. Nella veste della turista sportiva la mia intuizione poetica, il mio sistema di pensiero e riflessione, il mio indugiare sulle atmosfere estetiche del paesaggio viene comunemente chiamato: “Ehi, lo vogliamo prendere il piattello o stiamo qui a fare notte?”, e così mi prendo lo skilift tra le gambe e non so perché mi vengono in mente i Krampus, questi diavoli della tradizione folcloristica che avevo studiato al corso di antropologia. Ricordo il documentario che mostrava questi tizi travestiti da demoni che piombavano a dare grandi mazzate a tutti. Non c’è collegamento logico alcuno: una specie di divinazione, mi viene da dire pensando ad alcuni scritti di Artaud.
Sciare risveglia in me una combinazione di sentimenti atavici: mi viene voglia di morire. No, davvero: salgo su per la montagna e mi sento male. Mi viene voglia di scappare a gambe levate mollando tutto lì nella neve, girare la schiena alla fila di sciatori che si affolla in cerca di un piatto di polenta e salsiccia. Guardo come degli strani esseri quelli che si lanciano negli slalom giganti con eleganza gridando: “È una giornata fantastica, incredibile! Evviva!”. Ecco, io amo scivolare nel vuoto, ma lo faccio più perché entro in contatto con quel desiderio di lasciarmi cadere: potremmo chiamarla angoscia e abbandono. Mi viene in mente che non dovremmo disturbare questo ecosistema con la nostra presenza e dovremmo solo stare in silenzio. E così sono divisa in due: da una parte la sensazione di volare, che è stupenda, dall’altra quella di essere fuori posto: mi metto a guardare i burroni, individuare un dirupo perpendicolare e profondo, cercare un crepaccio.
Fortuna che poi finisce tutto, anche questa fantasticheria, e torno a essere a casa nel mio isolamento a guardare mia madre che, con il ginocchio sempre più gonfio, lucida ancora il vetro della stufa, lo chiude, fa partire l’accensione e io, seduta e felice, osservo che in tre secondi netti ritorna nero. Lo trovo fantastico: questa attività non avrà mai fine, è come Penelope, il vetro dovrà essere lucidato ogni volta e non c’è la più recondita possibilità che il bruciatore non affumichi la lastra trasparente apparentemente ignifuga.
Il moto perpetuo è la nostra salvezza: una scoperta straordinaria.
Nella chat di classe di mio si sente che il vero dramma culturale in Italia è: dove cazzo mettiamo i bambini se non vanno a scuola a studiare? Le soluzioni proposte dalle madri anche in rete e sui giornali, nei post e nella messaggistica sono tante. Le “smart lessons”, lezioni in video, Power Point, il niente totale, chi dice che non farà fare attività ai figli, chi teme che si trasformino in selvaggi, chi lo desidera chi si fa spedire i libri e i quaderni, chi deve reperire una stampante. Non lo so. È molto complesso, ognuno ha la sua personale drammatica situazione. Io sono per i cartoni educational. Secondo me potremmo dare una bella laurea in medicina a chi arriva al termine della serie completa di Esplorando il corpo umano, che a casa mia va per la maggiore ed è corredata dalle puntualizzazioni in gergo scientifico dei miei genitori come una vera mini lezione universitaria precoce. In altre famiglie di cui ho sentito parlare, ove si apprezza l’ingegneria, qualche bambino è divenuto progettista della Lego pronto a stipendi ben più alti di quelli previsti in Italia per la professione. Intanto nel mondo reale ci sono le prime lauree via Skype e si discute la tesi attraverso la webcam, il Politecnico è il primo. Usciremo da questa epidemia investendo sull’istruzione pubblica e spero soprattutto sugli ospedali pubblici.

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA 5

3/21/2020

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ISOLAMENTO IN MONTAGNA – GIORNO CINQUE
Soprattutto la mattina, quando tutti escono e in casa cessa qualunque presenza umana, quando rimango a stretto contatto solo con animali selvatici addomesticati, per lo più gatti (ma non si esclude che ci sia qualche topo e un piccolo cerbiatto poco sopra casa nel bosco), quando aprendo la finestra sento lo scrosciare del ruscello che correndo a rivoletti tra i sassi si conquista il torrente per finire nel fiume, io mi sento ottimista e confortata. 
In queste giornate epidemiche di massa, in giorni di panico psicotico, come in tutti i fenomeni che interrompono la miseria del nostro quotidiano, c’è qualcosa che ci fa essere incontenibilmente felici. Non dovremmo, c’è gente che soffre, certo, ma il fenomeno felicità inappropriata, seppur indicibile, è innegabile per qualcuno. Il motivo ha a che fare con l’idea che quando vivi un’epoca di depressione sociale, qualunque cambiamento potrebbe nascondere una riscoperta della possibilità di virare la direzione della nostra vita verso un senso più concreto. Ma non dici che speri che duri ancora un po’, non lo dici per non essere considerata superficiale, avvantaggiata, privilegiata, insultante. E, di certo, in questo momento io lo sono. 
Da quando il Vaticano è stato infettato e non ci si può più scambiare un segno di pace, è deliberatamente guerra, tutti contro tutti. Il gatto nuovo contro quelli vecchi, il figlio contro il padre, un bambino disperato e inconsolabile perché gli comunicano oggi che ha toppato una porta nell’ultimo slalom durante la scorsa gara. Io mi affretto a trovare la stessa coppa vinta dagli altri in qualche shop online. Mia madre sbuffa contro mio padre e tutti contro di me. 
Non possiamo toccarci, è un presidio medico, una precauzione, è meglio prendere le cose seriamente! Per rilassarmi ascolto i podcast di Burioni, che in confronto al clima che si scatena in casa in certi momenti, mi appare gradevole, cordiale e lievemente più garbato. Accendo il tg su Rai News e riesco a ritirarmi in una stanzetta e mi ci chiudo a chiave. Ho con me una stufa elettrica a olio del 2001. Cerco la famosa ispirazione per scrivere il mio romanzo: qual è il vantaggio di non essere dominati dalla vista? Che cosa cambia nella nostra personalità? A questo punto, dopo cinque minuti di riflessione, mi bussano alla porta a vetri della stanza. Non c’è corrente per far andare l’acqua degli scaldabagni, ne so qualcosa? Assolutamente no, urlo abbracciando la stufa a olio, comprata a basso costo a Udine: consuma 3500w, praticamente tutta la corrente della casa.  Quando se ne accorgeranno, avranno già fatto una bella doccia gelata, e qui per gelata parliamo proprio della famosa acqua di scioglimento del ghiacciaio sopra di noi che viene incanalata nel nostro sistema idrico. L’acqua fredda fa bene, riattiva la microcircolazione e lascia tutti sotto shock per un’oretta e mezza. Io, intanto, trovo la spedizione rapida per la coppa da sciatore che voglio dare al figlio, a cui non hanno nemmeno dato la medaglia di consolazione. No allo slalom e giù dritto. Per questo suo temperamento nettamente anarchico che amo smodatamente, voglio premiarlo con una coppa trionfale. All’urlo “libertaaaaaà” gli porgerò la coppa Bakunin.

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